In Congo, la gente non ama essere ritratta: gli scatti, è meglio non rubarli; non sai come potrebbe andare a finire. Ricordo la volta in cui siamo andati al parco di Conkouati: proprio come noi, un camion zeppo di gente (come quello in questo post), stava aspettando il barcone che li avrebbe traghettati sulla sponda opposta del fiume. Nell’attesa, siamo scesi dalle auto; una ragazza della nostra comitiva aveva la Reflex al collo ma non stava scattando foto, né aveva intenzione di farlo. Eppure alcuni uomini sul camion hanno cominciato a inveire contro di lei, sono scesi e hanno preso a strattonarle la macchina. “Nous ne sommes pas des animaux” – non siamo animali, dicevano. Per placarli ha dovuto sganciare denaro e, naturalmente, mettere via la Reflex.
A fronte di episodi come questo, le uniche persone che ho immortalato sono i bimbi dei villaggi lungo il fiume Congo, dal sorriso velato da un’ombra di saggezza precoce, e la signora che guidava la nostra piroga sul fiume, con la quale avevamo sviluppato quel briciolo di confidenza necessaria per chiederle la cortesia di una foto.
Le istantanee che più mi danno emozioni, però, non sono queste. Gli sconosciuti che più ricordo, che più lego al Congo, sono quelli che non ho mai ritratto. E pensare che basterebbe scendere dall’auto e camminare lungo una strada qualunque, di quelle con ai lati file di baracche di lamiera e container trasformati in quincaillerie, spacci di cianfrusaglie varie. Sarebbe sufficiente mettere il naso in uno degli innumerevoli coiffeur e immortalare una signora a testa china che si fa intrecciare i capelli, mentre un’altra si fa cucire, con una specie di ago da materassaio, lunghe extension alle radici delle proprie trecce. Una chioma falsa, ma sempre perfetta.
Basterebbe entrare in uno dei quei mercati all’aperto, farsi largo tra bancarelle di manghi, banane, bacinelle, scope, detersivi, vestiti, copricapo, ciabatte rotte, scarpe col tacco, copertoni, latte, patate, ferraglia, pesce, manioca, fou fou, vasellame, bottiglie di whisky piene di cacauhettes (arachidi), bottiglie di whisky piene di benzina, secchi di plastica, tergicristalli, carte telefoniche, granaglia, carbone. All’interno di questi supermercati senza porte, finti Bengodi che promettono abbondanza in un paese dove è la scarsità a regnare sovrana, una bella foto sarebbe assicurata.
E poi potrei continuare a risalire la stessa strada: Pointe Noire regala un’istantanea dopo l’altra. La signora che sta insaponando un bambino seduto buono buono su di uno sgabello. Il tizio grondante di sudore che spinge un carretto colmo di lamiere. Il tassista che guida con una mano sul volante e una fuori dal finestrino, a reggere quello che sembra un materasso appoggiato alla meglio sul tettuccio dell’auto. Il ragazzino che gioca con una palla sgonfia e la maglietta della Juve, regalatagli da chissà chi. La coppia di fronte alla chiesa, nei loro abiti della domenica: lui in uno psichedelico completo a stampe viola e arancio fluo e lei, un grosso confettone fasciato in un abito fucsia. L’anziano che porta in giro una piccola mandria di vacche scarne e quello seduto su uno scalino polveroso, con un cane vicino a sé, un nastro di iuta al posto del guinzaglio.
Sembrano le tante e tante figure che popolano i quadri del vecchio Gondissa. A Pointe Noire tutti lo conoscono: fa il pittore, ha sempre le mani sporche di tempera e, così, quando ti saluta, ti porge il polso per non sporcarti. Crea i suoi colori da sè e, nonostante gli occhi ormai azzurri di cataratta, dipinge quadri bellissimi e pieni di umanità che ti portano l’Africa e la sua gente anche dentro casa.
Avrei potuto scattare tante foto, ma non l’ho fatto e non solo per ragioni di sicurezza. E’ quel ‘non siamo animali’ che mi trattiene. Quel grido rabbioso, quello stare sulla difensiva. Come a dire, noi siamo così, questa è la nostra cultura e non c’è nulla di così eccezionale, tragico o divertente che tu, europeo, debba sentire il bisogno di fotografare. Ed è anche per rispetto che non chiedo ai locali il permesso di fare loro delle foto. Magari non mi direbbero di no ma, probabilmente, non è quello che vorrebbero.
Un peccato però, perchè così non avrò modo di imbrigliare questo pezzetto della mia vita, non potrò avere un segno tangibile che, tra qualche anno, mi aiuti a ricordare in modo più concreto la pazza avventura che sto vivendo perchè, per quello che nel bene e nel male ha rappresentato, la voglio ricordare.
Ahimè, non avrò altre foto se non quelle prese di sfuggita da dietro al finestrino dell’auto o su una spiaggia affollata al calar del sole, quando uomini e ombre si confondono. Mi resterà però questo post, ricco, stavolta sì, di immagini nascoste tra le righe.
Leggerti mi rapisce letteralmente. Ma quando racconti il Congo Cris, percepisco quanto quel pezzo d’Africa ti sia entrato nell’anima. Profonda ammirazione per come ne scrivi e per il rispetto che hai verso il mondo.
Ciao cara, grazie per questi commenti che, in un momento in cui l’esistenza del blog traballa, sono sempre preziosi! Un bacio
Io le ho viste le tue foto, le ho viste scorrere nella mia mente mentre leggevo le tue parole.
Sul tuo saper scrivere stavolta ti dico solo “brava”, perché non vorrei suonare troppo stucchevole.
Capisco il fastidio che una macchina fotografica puntata addosso può scatenare – in questo caso – nei Congolesi: io amo fotografare le persone – anche se spesso mi faccio un sacco di problemi – ma ho visto molte volte obiettivi accanirsi sulle facce di bambini africani per scattare foto che finiscono puntualmente sui vari social con la stessa didascalia “poveri ma felici” facendomi passare del tutto la voglia di scattare.
La foto di un volto da sola può raccontare una storia, ma il confine tra scattare per documentare o semplicemente per avere una foto ricordo e scadere nella spettacolarizzazione è molto, molto labile: quante foto faremmo entrando in un asilo della nostra città, di Londra o di Sydney?
Probabilmente nessuna, eppure la felicità che trasmette un bambino è universale.
Esattamente – penso che al di là del desiderio di avere un ricordo (o, peggio, di fare il solito status acchiappa like su FB), sia necessario riflettere un attimo e pensare alla cultura che abbiamo di fronte. Per molte popolazioni non è un problema l’essere riprese o meno, ma quando si ha la percezione che la cosa non sia gradita (se non addirittura proibita), perchè insistere, perchè offrire magari anche del denaro per avere il permesso di fotografare? Qual’è il senso della foto a questo punto? Io personalmente in certi casi preferisco prendere le distanze, con rammarico purtroppo, ma mi farò bastare un ricordo.
Bellissime parole Cris, e splendida l’immagine delle istantanee che mi hai trasmesso.
In altri paesi africani invece a me è successo che fossero proprio le persone a chiedermi una foto…per vedersi ritratti..ed in quel momento non sai quanto vorrei avere una polaroid per potergliela lasciare….
Grazie Michela! Non mi è ancora successo di trovare persone che mi chiedessero di fargli una foto ma mi è capitato l’opposto, ossia che alcune persone con lo smartphone volessero fare una foto… a/insieme a me 🙂
Che bello! Diciamo un post sulle “foto mai fatte”, e mi piace molto questo racconto, questo scorcio d’Africa 🙂
Le foto parlano, ma ciò che hai scritto ancora di più 🙂
Grazie!
Complimenti Cris, le tue parole sono state davvero emozionanti. Anche se ripeto quello che hanno già detto gli altri, ti faccio i complimenti per essere riuscita a trasmettere un messaggio molto forte pur senza le foto. Brava!
Grazie mille, sono contenta il messaggio sia giunto ugualmente!
Complimenti Cris! Sebbene l’hashtag sia legato al postare delle foto, tu sei riuscita a rendere l’idea anche senza esse. Brava! Capisco cosa tu voglia dire. Culturalmente pensano che una foto sia come togliergli un pezzetto di anima, in realtà è imprimere quel momento, quello sguardo in uno scatto; comprendo però che la diversità culturale e di pensiero si scontra con il nostro fine di voler ricordare un aspetto del viaggio mediante uno scatto, ed è giusto così. E’ giusto anche il tuo comportamento, ovvero comprendere che lo scatto non è opportuno e limitarsi a fotografare con i propri occhi. Dopotutto, alla fine sei riuscita a descrivere comunque benissimo tutti questi tuoi “scatti mentali” e riportarli in questo post, ed immagino che in una realtà come il Congo di questi scatti ne avrai fatti a bizzeffe. Grazie per aver partecipato ed averci dato la tua rappresentazione di #PeopleInAShot.
Ciao Emanuele, grazie a te per la bellissima idea! Preciso però che la riluttanza al farsi fotografare non è legata a credenze tribali quali il rubare l’anima etc. Ritengo sia semplicemente – mia supposizione ma credo proprio sia così – un fatto di orgoglio, un non volersi sentire ‘qualcosa da fotografare’. E quindi, niente, tutte queste immagini le porterò nella mente e nel cuore.
Un caro saluto!
Meraviglioso…nonostante manchino le foto fisiche le tue descrizioni mi hanno fatto vedere quelle persone, quella gente, quella povertà dignitosa.
Ciao Alice, grazie per leggermi sempre! 🙂