La mia Via dei Canti: Itinerario nell’Outback tra leggende e luoghi sacri

Le 'Tante Teste' del Kata Tjuta National Park, Australia
Un itinerario immerso nel mito, nel cuore rosso dell'Australia, sulla strada verso Uluru.

“Si credeva che ogni antenato, nel suo viaggio nel Paese, avesse sparso sulle proprie orme una scia di parole e note e musicali e che queste Piste del Sogno fossero rimaste sulla terra come vie di comunicazione fra le tribù più lontane. Un canto faceva contemporaneamente da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo sapevi sempre trovare la strada.

– E un uomo in Walkabout si spostava sempre seguendo una Via del canto?
– Ai vecchi tempi sì. Oggi viaggia in treno o in automobile.”

da Le Vie dei Canti, Bruce Chatwin

Il cuore rosso dell’Australia è pieno di luoghi sacri. Non tutti sono però spettacolari come Uluru: un sito sacro può essere semplicemente una pozza d’acqua, una pietra, un albero. Sono luoghi che a noi magari non dicono nulla ma che, per il popolo aborigeno, hanno una valenza forte, fortissima, in quanto legati alla sua straordinaria cosmologia, al Dreamtime. E’ infatti durante il Tempo del Sogno che gli Antenati – esseri dalle sembianze antropomorfe – hanno creato, percorrendola in lungo e in largo, la Terra e i suoi popoli. Una volta terminata l’opera, essi si sono poi tramutati in rocce, monti, alberi e fiumi, in cui il loro spirito continua però a vivere.

Di quest’epoca mitica oggi non si sa molto. Non c’è nulla di scritto, innanzitutto: i canti – o Sogni – sono, per loro natura, frutto della tradizione orale. Inoltre, non tutti gli aborigeni sono depositari dello stesso sapere: pochi eletti fungono da custodi e alcune storie possono essere ascoltate solo da gruppi ristretti. Allo stesso modo, certi luoghi sono off-limits per determinati membri della comunità aborigena – molti siti sono esclusivamente ‘femminili’, altri solo ‘maschili’ – per non parlare ovviamente della comunità bianca. Vedrai spesso, nel Red Centre, cartelli con la dicitura “The Aboriginal owners request that visitors do not take pictures/do not proceed further. Please respect their wishes”.

Molti aborigeni ritengono che violare la sacralità di questi posti possa avere conseguenze infauste non solo per chi il danno l’ha causato ma anche per il proprio popolo. In questo post ho deciso di raccogliere i miti dischiusi al viaggiatore, tracciando un mio personalissimo itinerario nell’Outback australiano che includa non soltanto le tappe d’obbligo, ma anche i luoghi sacri e le leggende che hanno segnato i miei 5 giorni lungo la Red Centre Way.

Da Alice Springs a Glen Helen Gorge (135km)

La Red Centre Way descrive un loop di circa 1135km, partendo da Alice Springs, cittadina di frontiera dallo status quasi leggendario, cuore vivo del deserto. E’ qui che avviene il nostro primo incontro con la cultura aborigena, incontro che però, di magico, non ha avuto proprio nulla.
Sovrappeso, malvestiti, capelli arruffati: girano in infradito consunte, con un’aria indifferente. Hanno visi antichi, che certo non si possono definire belli. E bella non è la loro storia, quella già sentita di nativi emarginati e degradati, un pugno nello stomaco in un paese dove tutto sembra perfetto. Decimati dall’uomo bianco in passato, gli aborigeni sono oggi troppo spesso vittime dell’obesità, del diabete, della tubercolosi e, soprattutto, dell’alcool. La loro speranza di vita è di circa 20 anni inferiore a quella del connazionale bianco e il tasso di mortalità infantile è molto, molto elevato.

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Aborigeni – Photo credits: http://www.portaleaustralia.com/

Da Alice Springs partiamo alla volta di Glen Helen Gorge, lungo la Namatjira Drive. E’ un tratto breve ma che prevede molte soste, sebbene non tutte ugualmente interessanti. Simpsons Gap, è il primo dei numerosi waterholes, nonché dei luoghi sacri, che costellano la strada verso Glen Helen. Questa tappa ci regala l’inatteso incontro con una colonia di wallabies, marsupiali simili al canguro ma molto più bassi e con una coda più lunga e sottile. Li osserviamo per un po’, fino a che un ululato non li mette sull’attenti. E’ un dingo. In meno di un minuto le rocce sono sgombre: i wallabies, abilissimi saltatori, si sono dispersi sul versante, dove il dingo affamato non potrà raggiungerli.

A Glen Helen Gorge, ci prepariamo a trascorrere la notte in un motel molto spartano, nonché l’unico in zona. Apprendo molte cose su questo posto, il cui nome tradizionale è Ntjamga, che significa oasi: questa gola è infatti una delle principali risorse d’acqua nel deserto.

Scopro che a Glen Helen è legato il sogno del Death Adder, uno dei più letali serpenti australiani. Durante il Dreamtime, il rettile, giunto qui dopo un lungo viaggio, era talmente stanco da non riuscire più a muoversi. Distesosi sul fianco della montagna è infine spirato, la sua sagoma visibile ancora oggi. Il suo spirito è diventato guardiano dell’acqua, elemento essenziale per coloro che, come lui, hanno viaggiato e viaggiano tuttora nel deserto. Quando ci si disseta in questa zona, va chiesto il permesso agli spiriti che qui ci vivono: va detto loro che sei soltanto di passaggio e che vorresti toglierti la sete. E lo stesso vale per coloro che, come noi, scelgono di trascorrere qui la notte: va comunicato agli spiriti che vieni da lontano, sei stanco e vorresti dormire. Tutto nell’area di Glen Helen è sacro: piante, rocce, pietre.

Inoltre, poiché si tratta di un luogo utilizzato per cerimoniali femminili, sono numerose le leggende che legano figure di donne al territorio. Come quella della Spirit Woman, che vaga in cerca del suo uomo, aggirandosi di notte quando tutti dormono e accucciandosi vicino a colui che più le piace, senza che questi se ne accorga. O ancora, la Skinny Woman, una formazione rocciosa con le sembianze di una ragazza molto magra raggomitolata su di sé, dalla quale le giovani donne delle tribù stanno alla larga per non diventare come lei: talmente magre da morire. E poi c’è la Pregnant Woman, una roccia dal ventre prominente che, a toccarlo, porta fertilità.

Proseguiamo il nostro itinerario nell’Outback lasciando Glen Helen e salutando mentalmente gli spiriti.  Per sempre impresso nella roccia, il Death Adder ci osserva mentre ci allontaniamo (Lo vedi? Guarda bene a destra!), mentre un canguro salta via.


Da Glen Helen a Kings Canyon (225km)

Circa metà dell’area del Northern Territory è di proprietà degli aborigeni e spesso è necessario acquistare un pass per potervi transitare, come nel caso della Mereenie Loop Road, la strada sconnessa – e percorribile solo in 4WD – che dobbiamo prendere ora. Ecco l’outback che immaginavo: quella terra rossa, rossa davvero, con qualche basso arbusto che cresce a dispetto del caldo. Non una macchina all’orizzonte. L’eccitazione ogni volta che qualcosa di lungo e scuro si profilava in mezzo alla strada – Un serpente! Un serpente! – ma un serpente non lo era mai; era solo un pezzo di copertone scoppiato, lasciato lì, ad ardere al sole.

Prima del Kings Canyon, una tappa intermedia. Gosses Bluff – o Tnorala, in lingua aborigena – è un cratere dal diametro di ben 20 km, creatosi 140 milioni di anni fa a seguito dello schianto di una cometa. Già osservandolo da lontano rivela un che di mistico: non si tratta della solita montagna, è piuttosto un anello, un recinto che nasconde chissà cosa al suo interno.

La stradina che porta dentro al cratere è davvero brutta e il Prado sobbalza più volte. La crosta terrestre che fa da parete a Tnorala diventa a poco a poco più alta, imponente. Come ogni luogo sacro, anche Gosse Bluff è legato ad un sogno: mentre gli Antenati danzavano nella Via Lattea, una donna fece inavvertitamente cadere sulla Terra la culla con il proprio bambino. Quella donna era la Stella del Mattino e, da allora, insieme al suo compagno, la Stella della Sera, non ha mai smesso di cercarlo. Dov’è caduto? Naturalmente qui: il suo schianto è l’origine del cratere.
La custode di questo Sogno è l’aborigena Mavis Malbunka: il popolo dei nativi mantiene viva la sacralità dei luoghi cantandone le storie o celebrandovi cerimonie. Mavis e i vecchi della tribù dicono ai bambini di non cercare con gli occhi la stella del mattino o della sera: per invidia, i due astri infelici lo faranno ammalare.

Soffia il vento all’interno del cratere, non c’è anima viva e provo una sorta di tensione. Mi sento un po’ a disagio. E’ una sensazione quasi magica, mai provata prima, un che di latente nell’aria che ci accompagnerà durante tutto il viaggio nel Red Centre. Facciamo due passi nell’area consentita ai turisti; un breve tratto e poi il solito cartello: Do not proceed further. Please respect our wishes. Andiamo via. In auto mi volto e mentre l’ingresso diventa sempre più piccolo, ho l’impressione che l’anello torni a chiudersi. Mi sembra giusto così.

E poi finalmente ci siamo: Kings Canyon, Watarrka National Park. Luogo prettamente ‘maschile’, il Kings Canyon è associato al sogno del popolo Kuningka, che ha qui tenuto riti iniziatici con le tribù del luogo, prima di continuare il proprio viaggio verso nord. Le credenze aborigene sostengono che le cupole di roccia sull’orlo del canyon – i dome che formano la zona denominata Lost City –  siano proprio i giovani Kuningka.

A portarci vicino ai dome, sarà il percorso escursionistico più bello del Kings Canyon, il Rim Walk. Un trail entusiasmante con un’unica pecca: va cominciato praticamente all’alba, dato che, a causa delle alte temperature, l’accesso viene negato dopo le 9 del mattino (e, a seconda della stagione e della calura, a volte anche prima, verso le 7). Partenza alle 5 dunque: a parte la sfiancante salita iniziale di circa 1000 gradini, i 6km successivi sono decisamente semplici e, con un minimo di forma fisica, possono essere portati a termine senza problemi. Perché Rim Walk? Perché si cammina proprio sul bordo del canyon, con viste privilegiate sui dome e sul Garden of Eden, un’oasi verde dove una piscina naturale permanente ha dato vita ad un microclima pluviale, con palme e tanta vegetazione.

Da Kings Canyon a Kata Tjuta (350km)

Kata Tjuta significa ‘tante teste’. E le teste – o dome – che compongono i monti Olgas sono ben 36. Il Kata Tjuta è un luogo sacro agli uomini Anangu ed è legato al sogno di Wananmbi, il serpente arcobaleno che dorme sulla sua sommità. Di tanto in tanto, naturalmente, Wananmbi si sveglia e allora, a suon di sconquassamenti e saette, rompe l’armonia di cielo e terra, per poi riavvolgerli, una volta calmatosi, nei colori di uno scintillante arcobaleno e tornare a dormire.

Per motivi di tempo non sono riuscita a scendere lungo il trail della Valley of the Winds, un percorso di 7,5km che porta proprio nel cuore delle cupole. Un peccato, perché avrei avuto una prospettiva ancora diversa di questo luogo sensazionale: guardate come cambiano i colori e il profilo delle ‘teste’ a seconda della luce del sole e del punto di osservazione!

Il nostro itinerario nell’Outback giunge al termine: ultima tappa di questo viaggio (in)cantato è naturalmente il cuore del Red Centre: Uluru. Che, però, si merita un post tutto suo.
Arrivati a Uluru puoi decidere se chiudere il loop tornando ad Alice Springs oppure, come abbiamo fatto noi, prendere l’aereo e proseguire il tuo walkabout altrove.

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15 Comments

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  1. says: Lisa

    Meraviglia..anche io sono stata nell’outback australiano, con tour organizzato, ma bello lo stesso 🙂 poi l’emozione di vedere ULURU x la prima volta e l’alba a Kata Tjuta..brividi! l’unica cosa che cambierei è il periodo…ad Ottobre non è molto consigliato, data la quantità smisurata di mosche che ti assale! O.O io e la mia family dovevamo andare in giro con le fly nets!!! xD

  2. says: Roberta

    Ma wow! Sei un mito!! Solo tu potevi fare un walkabout e non un normalissimo tour! A questo punto, sarei curiosa di capire chi fossero le tue guide: degli aborigeni? Fa male leggere che ormai, di questo popolo, siano rimaste solo persone obese, drogate e con meno speranze di vita… Ormai, probabilmente, la cultura aborigena è solo un vezzo per turisti in cerca di emozioni

    1. says: Cris

      Veramente ho fatto tutto in autonomia 🙂 Mi sono documentata molto sul dreamtime prima di partire cercando leggende, segnando tappe etc. e l’ho trovata un’impresa veramente difficile perchè trattandosi di tradizioni orali e che, soprattutto, gli aborigeni non condividono con i non-aborigeni, il materiale che ho trovato è stato davvero poco. Ho imparato molto sul posto: la maggior parte delle leggende citate in questo post le ho scoperte solo una volta arrivata in ciascuna tappa, ascoltando ranger etc.
      Mi ha fatto molta tristezza vedere gli aborigeni, soprattutto a Alice Springs, dove è piu che evidente che l’integrazione non c’è stata affatto. Quando arriverai ad Uluru, guarda il bellissimo video all’interno del visitor centre, ti spiegherà un sacco di cose su questa cultura.

    1. says: Cris

      Ciao Drusilla! …immagino, non si dimenticano facilmente. Sebbene la parte di Australia che ho visto mi sia piaciuta molto, se dovessi scegliere un unico posto in cui tornare sarebbe proprio qui nel cuore rosso…

  3. says: Francesca

    Quei 1000 scalini del Kings Canyon a distanza di 2 anni me li ricordo tutti, uno ad uno. Pensavo di morire quel giorno, giuro, non avevo mai affrontato una salita così ripida prima, ma alla fine ce l’ho fatto e la vista da la su, come hai detto tu, è semplicemente mozzafiato!

    1. says: Cris

      hahahaha, menomale che ne è valsa la pena almeno! Per caso tu eri riuscita a fare anche la Valley of the Winds?

      1. says: Francesca

        Si, infatti altrimenti penso avrei buttato di sotto il ranger!
        No, niente Valley of the Winds. Ricordo che dopo quella escursione, ci siamo diretti ad Alice Springs: all’indomani avevamo il volo per Darwin.

        1. says: Cris

          Ah ecco. Uff, quella escursione mi è proprio seccato non farla! Faceva troppo caldo e così quando siamo arrivati il sentiero era già chiuso e il mattino dopo ci siamo dedicati (ovviamente) a Uluru. Va bhè, next time.

  4. says: Meridiano307

    Da brivido..devono essere paesaggi incredibili, quasi extraterrestri.. poi il legame degli aborigeni per le tradizioni della loro terra si deve percepire a pelle..

    1. says: Cris

      Sì, è un legame fortissimo… Ho l’impressione che il mondo per loro sia un po’ come un ‘testo sacro’: è tutto già scritto lì, in ogni roccia, in ogni fiume. Non serve altro per comprenderlo.