Namastè.
Probabilmente sarà la prima parola che sentirai, in Nepal. E subito percepirai un senso di pace. E’ cominciato tutto in aereo, quando dal finestrino hai visto quella che sembrava una fila di nuvole. Solo che non erano nuvole: erano le cime nevose dell’Himalaya. Ma del resto le montagne di 7 e 8000 metri ancora non le avevi mai viste in vita tua e dall’incredulità alla meraviglia è un attimo. Sbrighi le formalità, fai il visto.
Esci dall’aeroporto in uno stato simile alla beatitudine. Namastè.
E poi, il delirio.
Un marasma allucinante di rumori, odori, latrati, colori, clacson, polvere, persone e afa ti inghiotte. Quel marasma si chiama Kathmandu. Stordita dopo svariate ore di volo, non mi rendo conto di un motorino che quasi mi sale sul piede, mentre un’auto suona e altre due tre, dieci, mettono a dura prova i miei timpani. Krishna, la nostra guida, ci tira via. Ha gli occhi nerissimi e buoni: il tilak vermiglio che ha sulla fronte si arriccia e sale un po’ più su quando ride.
Montiamo in macchina e ci immettiamo nel traffico. Un bimbo piccolissimo, a dieci cm dal finestrino, mi guarda incastrato tra la mamma e il papà. Sono in 4 sul quello scooter, in una fila così disposta: bimbo piccolo, papà che guida, bimbo piccolissimo, mamma che lo schiaccia stretto tra sé e il marito.
Arriviamo a Bhaktapur, dove il traffico è inversamente proporzionale alla gente e non so se questo sia un bene o un male. Sembra che tutti abbiano qualcosa da vendere: perline, kumkum e altri pigmenti colorati, una banana, salvadanai di coccio, fossili che incarnano divinità indiane, stoffe, foglie commestibili cariche di spezie, un elefante di pietra con la proboscide in su e uno in terracotta con la proboscide in giù, la testa di un buddha, un piccolo stupa, una noce di cocco.
I colori di Kathmandu fanno male agli occhi. E’ tutto così acceso: l’azzurro del cielo di novembre senza una nuvola a macchiarlo, i sari delle donne indiane, i frutti sui carretti e sulle bancarelle di Taumadhi Square.
Dai templi spuntano leoni, elefanti, occhi, serpenti, braccia, draghi, lingue. Seguo con attenzione le parole di Krishna ma mi perdo in fretta: non ricordo più chi è Shiva, Brahma o Vishnu, chi ha sposato Parvati. Ciascuna effigie è spalmata di pigmento, un’offerta alle divinità così come lo sono il riso, i fiori, la frutta, l’acqua, i gusci delle uova, i dolci lasciati in terra o dentro i tempietti ai bordi delle strade.
Una donna anziana con due enormi borse viola sotto gli occhi sbuca da una porta dorata con una ghirlanda in mano e ci dona un fiore rosso: una puja – un rituale di adorazione – è terminata da poco e il suo regalo per noi stranieri è un augurio di buona fortuna. Lo metto a seccare tra le pagine del mio taccuino. Namastè, signora.
Kathmandu di nuovo. Lungo la strada ci sono cumuli di riso, lasciati al sole prima di essere brillati. Uno scooter con una donna seduta all’amazzone per non spiegazzare troppo il sari, ci passa accanto. Cani randagi, tanti, troppi, da spezzare il cuore. Mucche sacre, sedute indisturbate sul bordo della strada. O proprio nel mezzo.
Cerchiamo un po’ di calma a Boudhanath, lo stupa più grande del mondo, dove l’induismo lascia il posto al buddismo. Gli occhi dipinti nelle quattro direzioni ci seguono mentre compiamo, come ci viene insegnato, un giro in senso orario intorno allo stupa, abbagliante nel suo candore.
La calma? Un miraggio. Monaci avvolti in un saio granata pregano e cantano seduti in terra, altri recitano litanie sgranando concentrati quei rosari buddisti che gli occidentali acquistano solo per moda, senza attribuirvi alcun significato. Tutti, religiosi e laici, si affannano a girare i tamburi disposti sul perimetro dello stupa, tanti stringono tra le mani il Chokhor, la ruota del dharma: nel vento le preghiere corrono più veloci. Sto attenta a non calpestare i giganteschi mandala disegnati sul terreno. Ancora offerte, scie rosse scendono in maniera sinistra sull’intonaco bianco. Ma quell’illusione sanguinaria è solo Kathmandu che ti gioca l’ennesimo scherzo e d’altro non si tratta che del solito pigmento colorato.
A Boudhanath torniamo la sera, con il buio. Quattro tipi dai capelli lunghi suonano un pezzo circondati da ragazzi di 20 e di 50 anni che ballano con movenze new age troppo forzate, nel desiderio di sentirsi un po’ hippie. Come se invece di una canzonetta pop-rock, a risuonare fosse la voce di Grace Slick.
Saliamo i 365 scalini che ci portano alla sommità di Swayambhunath, il tempio delle scimmie, dove i macachi ridono, gridano, ti spiano, ti tagliano la strada. Arriviamo in quello che per me è il perfetto riassunto di caos di Kathmandu: è qui che il Buddha scambia il suo sguardo imperturbabile con i volti bellicosi delle divinità hindu.
Le grate dell’enorme stupa dorato nascondono Illuminati seduti a gambe incrociate, le dita atteggiate all’insegnamento, le mani a coppa a cercare offerte, a offrire compassione. Prayer flags gialle, verdi, rosse, bianche e blu scendono dal vertice dello stupa e sembrano voler abbracciare, tutt’intorno, i piccoli e grandi templi induisti dalle porte d’argento e dai tetti d’oro, disposti senza apparente criterio. Il turista si confonde con il credente e cani randagi malamente scacciati si mescolano a scimmie ben più fastidiose ma tollerate perché care al Buddha.
Solo a Pashupatinath, i colori diventano più opachi, si spengono. Forse perché è il regno di Shiva il Distruttore. Aleggia la morte nel verdastro Bagmati, sacro affluente del Gange. Qui si disperdono le ceneri della cremazione, dove ragazzini muniti di un setaccio si improvvisano cercatori d’oro, perché è usanza metterne un minuscolo frammento nella bocca del defunto prima di darlo alle fiamme. Un cadavere brucia su di una pira – uno solo per fortuna, sebbene le piattaforme (ghat) siano parecchie – ma tanto basta a riempire l’aria di un odore acro, un odore che non hai mai sentito ma che non dimenticherai. Sulle gradinate, sotto il sole cocente, un’altra salma aspetta il suo turno avvolta in una sudario bianco. Ma Shiva è anche il Rigeneratore e, anche nel grigio di Pashupatinath, spunta una ghirlanda arancione. Fiori.
Sull’altra sponda del Bagmati, 90 piccole cappelle in pietra: sono custodi del linga, simbolo fallico nonchè una delle forme con cui Shiva si manifesta. E’ ben saldo nello yoni, il piedistallo che simboleggia l’organo femminile, il grembo materno. Sadhu più o meno autentici li contemplano.
E ancora, un giro a Thamel, dove l’ennesimo motorino ti sfiora, dove ti perdi di sicuro se non adotti i metodi di Pollicino o di Arianna, solo che invece di sassolini e gomitoli cerchi di tenere a mente i negozi davanti ai quali sei passato. Frikkettoni veri e frikkettoni falsi, quelli che che fanno tanto i new age ma vanno in giro con Reflex da mille mila dollari, negozi di berretti di lana già infeltriti e “See Mt. Everest from above”. Un cielo che per la prima volta non è azzurro ma striato da imbarazzanti cavi della luce che, ulteriore emblema della capitale del Nepal, non sono che un pazzo, pazzo, pazzo groviglio arrugginito e pericolante.
Insomma, a Kathmandu non si fa una passeggiata. A Kathmandu si scende, proprio come in un girone dantesco. Io sono esausta, senza forze. Quasi sollevata all’idea dell’imminente partenza per il più tranquillo Bhutan.
Non fosse che, qualche giorno dopo, riguardando le foto, trovo questa qui sotto. Una di quelle foto che fai tanto per, giusto perché sei al balcone e nemmeno ricordi di aver scattato. Mi prende una strana nostalgia: l’immagine mi catapulta nuovamente nel vortice newari; è qui che c’è tutta Kathmandu, con i suoi colori sgargianti, la sua povertà, la sua confusione e tutti i suoi 6 milioni di abitanti, uno per uno. Sento anche la puzza dello smog, la polvere in gola: invivibile.
Eppure, nonostante tutto, l’ho adorata.
E tu sei mai stato a Kathmandu? Io ci sono tornata, tre anni dopo questo post!
Una bellissima idea viaggio…cercherò di fare questa esperienza al più presto..grazie..
Eh si, noi ci siamo stati ad agosto 2016 e ancora oggi stiamo metabolizzando il viaggio in Nepal di sette giorni… tanto da continuare a scrivere bozze di post nel mio blog che non vedranno mai la luce secondo me. Tonnellate di foto e video che non verranno mai montati, un audio registrato a NamoBuddha che avrebbe dovuto fare da “colonna sonora” al video, un time-lapse dal balcone dell’hotel Planet che ho caricato sul mio canale YouTube così com’era…
Credo che il Nepal ci abbia “devastato”, allo stesso modo 😉
Buona vita
M
Poco per volta usciranno dalle bozze dai! 🙂 Purtroppo io ci ho dedicato pochissimo tempo ma devo assolutamente tornare… e poi vorrei fare il trek dell’Annapurna e raggiungere il Campo Base! Buona vita e buoni viaggi a te!
il trek dell’Annapurna piacerebbe anche a noi, ma tornare in Nepal non è proprio semplice e ci vuole tempo per fare questa cosa (almeno 15 giorni tra acclimatamento, cammino, rientro e “decompressione” prima della partenza). Vedremo in futuro 🙂
Eh si 15gg sono il minimo! Per questo alla fine abbiamo optato x il bhutan dato che ne avevamo solo una decina…
Che bella domanda provocatoria la tua! E tu sei stato a Katmandu? No, io non ci sono stata e come me, purtroppo, tanti altri non lo avranno fatto. Ma adesso potranno dire di aver visto qualcosa, grazie a te. Tutti quei colori mi hanno veramente affascinato! Mi è tornato alla mente, ma in tono molto minore, Nairobi.
Namaste’.
Gin
Ciao Gin! È un vero caleidoscopio Kathmandu… il problema è uscirne! A Nairobi invece non sono mai stata ma se è una tipica, confusionaria città africana… allora capisco cosa intendi!
Amate i vostri foto dei pigmenti colorati e il tempio
Thanks! Such a magical place!
Wow Cris!! Uno dei tuoi post che più mi è piaciuto…carico di emozioni!
Uno di quei post che ti fa venire voglia di partire subito😘
Grazie Eli! 💙
Racconto strepitoso. Sei riuscita a a farmi rivivere quelle atmosfere caotiche ma così cariche di umanità. Che viaggio meraviglioso….Namastè😊
Ciao Alessia, grazie! Che bello, ci sei stata anche tu? corro a leggere allora! Come dicevo sotto a Daniela, peccato essere partita avendone vista solo una piccola parte… però tanto mi è bastato per far scattare il colpo di fulmine!
Namastè a te!
Che racconto Cri! Mi hai emozionata. Ti è entrata nelle vene, nel cuore, nell’anima. E le foto… l’Asia è fotogenica, se poi la fotografa è pure brava, ne esce un bellissimo ritratto.
Ti seguivo su facebook. Mi sembrava di essere lì con te, anche se da casa il viaggio lo si vive all’1%.
Ti abbraccio Cri!
Ciao cara. Sai cosa, è che per certi versi il casino di gente, la polvere, i marciapiedi rotti o inesistenti… mah, sarà che mi hanno ricordato un pochino Pointe Noire. Che per per quanto sappia che per ovvie ragioni non è la vita che fa per me… un briciolo mi manca alla fine (ma proprio alla fine, eh!) 😀
Visto? E io invece me ne sto tranquilla al pc a godermi Kathmandu attraverso chi “ci scende” dopo ore ed ore di volo! E infatti l’ho trovata un’esperienza fantastica! 😀
Dico davvero, anche io comunque ne avrei nostalgia. A parte nei film e quando ricapita? *_*
Infinite Namastè 😉
Ciao Daniela!
Già, quando ricapita? Di solito non amo ‘mischiare’ più Paesi in un unico viaggio, ma in questo caso il doppio passaggio a Kathmandu era obbligato… peccato lasciare una città così dopo aver visto solo una piccola parte delle cose che ha da offrire!