Non sapevo cosa aspettarmi da questo viaggio. La lingua ufficiale delle prossime settimane sarebbe stata lo Dzongkha, la moneta il Ngultrum. Avrei attraversato paesaggi molto rurali, impiegato ore e ore per percorrere un centinaio di chilometri. Ma sarei stata circondata dai colori, dalle danze, dall’allegria dei festival. Dall’armonia del buddismo. Non sapevo cosa aspettarmi ma ero certa di andare in un bel posto, perchè non può non esserlo un luogo in cui si misura la felicità. In volo con l’Himalaya fuori dal finestrino, da Kathmandu sono arrivata in Bhutan.
Prima di partire, ho letto un articolo che lo definiva il viaggio dell’anima. Quel che è certo è che non assomiglierà a nessun’altro intrapreso sinora. Saremo scortati tutto il tempo da un cicerone locale: il Bhutan non lo si può girare se non in compagnia di una guida. La nostra si chiama Sonam, indossa l’abito tradizionale, il gho, una veste lunga fino alle ginocchia, e gambaletti scuri. Ai piedi, scarpe eleganti che sostituisce con un paio da ginnastica quando si cammina un po’ di più. Sulla bocca un’ombra di baffetti radi.
Ho un obiettivo in questo viaggio. Cercare di capire da dove derivi l’aura di felicità che permea le pareti di questo Paese. Le parole di Sonam e, come sempre, la strada, sono sicura mi saranno d’aiuto. Con il cielo turchese di novembre, lasciamo l’aeroporto alla volta di Paro. Ovunque, in strada, sui muri delle case, dentro i ristoranti, sulle spille appuntate sui gho, i volti dei due giovani regnanti di questo ultimo Shangri-la. Sonam non riesce a trattenere un sorriso d’orgoglio quando parla del suo sovrano e del re padre: è lui che ha introdotto il concetto di Gross National Happiness (GNH).
Gli chiedo in cosa consiste esattamente: davvero un Paese non si cura del PIL ma del FIL? “Non è che il PIL non sia importante, ovviamente. Solo che il benessere dei cittadini lo è di più”, dice.
La felicità interna lorda poggia su quattro pilastri: un modello di sviluppo sostenibile, il rispetto dell’ambiente, un governo illuminato e la conservazione della propria cultura. Ciascuna di queste aree è sua volta segmentata in vari indicatori di benessere tra cui, ad esempio, le ore di sonno, la salute del cittadino, l’utilizzo che fa del tempo libero, il contatto con la natura. Per dire, il Bhutan è il solo stato al mondo (almeno io non ho mai sentito parlare di altri) interamente smoke-free. L’aria delle montagne non si tocca, anzi, inquina con il puzzo del tabacco e, se tu turista vuoi fumare, allora ci sono spazi chiusi pensati apposta per te. Ma non fare il furbo a fumare in strada: potresti essere multato!
Presto il Bhutan, sostiene Sonam, sarà il primo Paese dell’universo ad avere un Minister of Happiness e attualmente, figura nella top five delle nazioni più felici del mondo. Complice forse anche il buddismo che porta i suoi adepti a sviluppare un atteggiamento se non più positivo verso la vita, sicuramente meno negativo nei confronti della morte.
Già, il buddismo. Visitiamo tanti templi nel nostro viaggio: mi colpiscono perché sono ridondanti di luce e hanno ad accoglierti gigantesche statue di placidi Buddha dorati, circondati da offerte e candele di burro. Saliamo al famoso Nido della Tigre – il monastero Taktshang – meta di pellegrinaggio a cui ogni bhutanese si reca almeno una volta nella vita. Sempre più vicino, il monastero non dà l’illusione di essere in bilico sullo strapiombo – è effettivamente costruito di esso – e mentre ci inerpichiamo a 3000 metri d’altezza, seguendo un sentiero punteggiato di colorate preghiere buddiste, ci sembra davvero di guadagnarcelo il paradiso. Chiediamo a Sonam perché è stato scelto un sito così ostile, così difficile da raggiungere. Ci risponde che i monaci cercavano un posto tranquillo.
Non fa una piega.
In Bhutan c’è una sola strada. È stata creata negli anni 60 (prima si viaggiava solo a piedi o sul dorso dei muli) e ora sono in corso i lavori per renderla più agibile. Forse è anche per questo che soltanto una minima percentuale dei turisti decide di spingersi oltre la triade cittadina Paro-Thimpu-Punakha. Noi invece arriveremo fino a Bumthang, a quasi 300 km dalla capitale: ci impiegheremo 2 giorni. Ma è proprio andando a est che trovo il Bhutan che mi aspettavo. Viaggiando sull’orlo dei precipizi himalayani, attraversiamo foreste di conifere impentrabili e vallate dai fiumi azzurri. Incontriamo popolazioni nomadi che, in inverno, abbandonano le vette e scendono un po’ più a valle con i loro yak e le loro tende blu. Sempre in nome del GNH, il Bhutan ha dichiarato che farà in modo di lasciare il 60% del suo territorio coperto da foreste (che oggi sono il 70%).
Sonam ogni tanto si gira verso il sedile posteriore della Hyundai, ride sotto i baffetti e fa: I have another fairy tale. Dopo giorni insieme, ci siamo abituati alle sue ‘favole’ come le chiama lui, ma non sappiamo mai se quel che ti racconta sono fatti veri, storielle di sua invenzione, miti popolari o religiosi. La pratica dell’hunting – una sorta di ratto delle donne del villaggio – ancora praticato nelle regioni orientali della nazione, la favola degli stomaci che, un bel giorno, arcistufi dell’uomo e delle sue lamentele, decidono di scappare (!) lasciando l’uomo incapace di inghiottire alcunché, o quelle sul vecchio sovrano che, come Siddartha, ha avuto idee luminose per il suo Paese proprio seduto sotto un albero di fico. Tra una favola e l’altra, passiamo in mezzo a risaie e case dai tetti rossi: a colorarli sono i peperoncini, piccantissimi principi della cucina locale, distesi a seccare al sole.
You sure you can handle it? Mi domanda beffardo un signore a pranzo.
Pff. Non mi conosci.
A Bumthang, ci aspetta uno tsechu: andare in Bhutan e non vedere un festival è perdersi gran parte dell’esperienza culturale che questo paese può offrire. Monaci e laici danzano vorticosamente al ritmo di cembali, tamburi e corni tibetani. Ballano per diverse ore, alternando gli abiti più variopinti a inquietanti maschere di cartapesta che rappresentano animali, demoni ed eroi. Per la popolazione locale, assistere a uno Tsechu significa ottenere benedizione e protezione dal male: si acquisiscono meriti per la prossima vita, precisa Sonam, anche se non sei buddista. Bhè, male non fa.
Nello dzong, a godersi lo spettacolo insieme a noi, pochi turisti e tanti bhutanesi, religiosi e non, vecchi e bambini. Si sono portati stuoie su cui sedersi, rosari, ruote di preghiera ma anche riso, aranciate e patatine per smorzare la fame. Uno splendido spaccato di vita, dove risulta evidente un’altra cosa: che il Bhutan non è un Paese ricco, no. Però, sempre in nome di quella tanto sospirata felicità, c’è da dire che i reali non conducono uno stile di vita sopra le righe, e anche il più povero ha comunque un tetto sopra la testa e di che mangiare. Niente estremi, il giusto mezzo.
Dopo il festival, riprendiamo il viaggio di ritorno, ovviamente lungo la stessa strada dato che ce n’è una sola. Nel tragitto ci accompagnano le prayer flags, bandiere variopinte appese dai credenti in punti strategici – ponti o alti passi di montagna – con l’augurio che acqua e aria diffondano al più presto i desideri di ciascuno. L’aria frizzante ci punge le guance e l’altitudine ci mozza un po’ il respiro mentre sostiamo sul Dochu-la Pass. Ci siamo sempre sentiti bene, ci siamo sempre sentiti protetti su quelle terre alte, avvolti dagli auspici delle bandiere di preghiera.
Non sono tornata da questo viaggio con delle risposte. Non ho capito cosa è verità e cosa è leggenda. Ma, ad esempio, mi piace pensare che il rumore del drago tonante sia davvero l’unico suono percepibile dai pochissimi coraggiosi che scelgono di fare trekking in Bhutan.
Allo stesso modo, non credo ci sia una ricetta della felicità. Ma, ancora, mi piace pensare che ci sia al mondo un Paese che la stia mettendo a punto, che stia dosando gli ingredienti per miscelare con successo le necessità economiche, spirituali e culturali dei suoi abitanti. E soprattutto mi piace pensare che ci sia un popolo che ci crede. Ecco perché questo primo post sul Bhutan contiene solo foto della sua gente. Quelle persone che rendono un viaggio unico, quelle che incontri lungo il cammino e a cui rubi uno scatto perché, con le loro rughe o con le guance paffute, ti sembrano perfette.
In quanto a me, come sempre capita quando viaggio, mi sono sentita molto, molto felice.
Ti suggerisco di leggere Lykke di Meik Wiking!
Non lo conoscevo; l’ho cercato e mi pare molto interessante! Lo prenderò, grazie!
Bellissimo post, mi è sembrato di essere lì in viaggio con te! Sarà anche grazie alle tue splendide foto, che ti fanno vivere le emozioni della gente del luogo e ti fanno sentire parte del loro mondo.
Si parla sempre più spesso di Butan ed ogni volta che ne leggo mi affascina sempre più. Un viaggio che non avevo mai considerato ma che mi sembra sembra più da fare.
Molto emozionante questo post, i paesi buddisti hanno qualcosa di speciale nella serenità che riescono a tramettere. Bellissime le tue foto!
Sarà un caso ma sono due giorni che sento nominare il Bhutan e leggendo il tuo post me ne sto innamorando forse perché ancora poco conosciuto e lontano dal turismo di massa. Vorrei proprio trovare un Paese autentico e non che venga incontro alle esigenze dei turisti occidentali.
Il mio viaggio in Buthan è stato il più profondo, il più spirituale. Ero sempre in cammino ma ferma dentro. Bellissime le tue fotografie che hanno riacceso i colori dei ricordi che tengo vicino al cuore.
Ciao Cris!
Stavo cercando notizie e “dritte” per il viaggio in Bhutan che sto pensando di organizzare, per primavera 2018, e sono incappata in queste tue pagine… che meraviglia!
Molto interessante il tuo racconto, e splendide le immagini!
Ma come fai a catturare così i colori?
E poi, che belli i ritratti delle persone…
Complimenti, davvero.
Grazie!
Silvia
Ciao Silvia,
grazie per essere passata di qui e per il tuo bel messaggio! 🙂
spero che le info sul Bhutan ti siano state utili, ho in programma un ultimo post in cui parlerò della parte più rurale che ho visitato, che ti consiglio davvero di non perdere: non limitarti alle sole tre note città se puoi!
Buon viaggio e fammi poi sapere!
cris
Io partirò ad Aprile di questo anno in solitario per un trekking di 13 giorni + altri 15 giorni di tour nella parte orientale del Paese in totale di 30 giorni, spero di avere una bella esperienza avendo programmato questo viaggio da circa due anni, penso di avermi fatto una buona conoscenza dei questo Paese di come e dove andare.
Auguri ci vediamo in Bhutan !!!
Allora buon viaggio, Claudio!
Ma puoi andare in solitaria?
A me risultava che in Bhutan fosse necessario, anzi tassativo!, muoversi accompagnati da una guida locale autorizzata: è cambiato qualcosa?
Buona giornata a te e a tutti!
Buon viaggio Claudio, facci sapere come andrà!!
Silvia, forse Claudio intende dire che farà un viaggio in solitaria nel senso lui+guida?
ciao!
Giustamente io + una guida voglio gustarmi panorami e serate solitarie, voglio disintossicarmi dallo stress quotidiano e dalla modernità, il cosi detto “viaggio nell’anima “chi la pensa come me mi scriva claudiozardokk@gmail.com
Se hai molta pazienza, prima o poi lo capiranno anche gli altri quanto sei brava. Ho molta stima di te e davvero, io non ho stima di chissà quante persone. Credo molto in te. Fregatene, tu viaggia e scrivi solo perchè lo vuoi tu. Il resto, se vuole, verrà da se. Sai, ti pensavo da un pò. Alla fine quel viaggio in Nepal… chissà, potrei farlo anche mio. Sto decidendo. Ti aggiornerò. Ciao Cri.
Sei sempre un sorriso tu!
Credo ti piacerebbe il Nepal: tra le sue mille sfaccettature troveresti di sicuro quella più adatta a te.
Cristinaaaaa! Ma che belle le foto! No, vabbè, c’è il cuore, come sempre, nelle tue cose. Ci potresti fare una mostra. E poi, più ti leggo e più mi domando cosa aspettino a proporti di scrivere un libro. Quanto a questo tuo viaggio… si, penso anch’io che il buddismo insegni alle persone ad essere positive e quindi più felici. Dovrei darmi al buddismo. Un bacio Cri.
hahahah ma va là che a parte te e pochi altri non mi legge nessuno! 🙂 Col buddismo non ero mai entrata a contatto e mi ha molto colpita questa filosofia. Anzi, ci farò un post! Baci