Jakar, distretto di Bumthang. L’aria di festa si mescola a quella fresca di montagna. Alle spalle, ore e ore d’auto su una strada dissestata e una notte in una guesthouse fredda, anche se nel letto si stava bene, grazie a uno strato di quattro coperte. E tutto per assistere a uno tsechu, evento religioso che dà al Bhutan il suo ennesimo soprannome: il Paese dei Festival.
In realtà, ‘festival’ è un termine riduttivo: uno tsechu è qualcosa di piuttosto difficile da definire. Sta a metà strada tra una fiera di paese e un rituale religioso, tra un picnic in famiglia e un evento mondano, tra una rappresentazione teatrale e una rievocazione storica. E’ una manifestazione colorata, dall’atmosfera al tempo stesso conviviale e solenne che si tiene in tutto il Bhutan più volte l’anno, in date selezionate in base al calendario buddista. Dura dai 3 ai 5 giorni.
Lo spettacolo, che consiste per lo più in una serie di danze religiose dette cham, si tiene in uno dzong, antica fortezza oggi centro amministrativo e religioso. Ci arriviamo insieme alla gente del posto, vestita dei loro abiti tradizionali e più belli: gli uomini in gho, le donne in kira, ingioiellate. Ma tra la folla ci sono anche monaci dalle tuniche granata, con rosari, ruote di preghiera e smartphone. Ci sono famiglie con ceste di bambù, di cui solo più tardi scoprirò il contenuto: snack, riso rosso, bibite. Un bimbo ci supera velocemente insieme all’eco di una voce che, come in ogni parte del mondo, immagino significhi ‘non correre’.
Lo dzong, già di per sé molto variopinto grazie agli elaborati intarsi in legno che decorano tetti, pareti e balconi, è ancor più vivace perché addobbato a festa. Le danze avranno luogo nel grande cortile centrale e a noi spettatori non resta che prendere posto: possiamo salire sulle balconate oppure sedere sul freddo pavimento di pietra lungo il perimetro del cortile. L’importante è non andare troppo vicini ai ballerini, non solo per non intralciarli ma perché l’area su cui si muovono è stata purificata e consacrata dai monaci: è un terreno benedetto e, durante uno tsechu, calpestarlo è proibito.
Al nostro ingresso si sta svolgendo uno dei cham più famosi, la danza dei Cappelli Neri, così chiamata per via degli alti copricapi indossati dai ballerini. Questa rappresentazione celebra l’assassinio del re Langdarma nel 842 AD – un re fortemente anti buddista – ad opera di un monaco dalla tunica nera che, nelle maniche della propria veste, aveva nascosto l’arco che scoccò la freccia mortale.
Ciascun cham celebra un determinato episodio legato al buddismo Vajrayana e, intrinsecamente, alla storia del Bhutan: nati oltre 1300 anni fa, gli tsechu avevano un valore soprattutto educativo. Erano un modo per insegnare, per non dimenticare, per tramandare i credo religiosi più significativi. Nei cham nulla è lasciato al caso: le posizioni dei danzatori – monaci e laici che affrontano una lunghissima preparazione prima di esibirsi in pubblico – replicano le posizioni delle divinità nei sacri mandala, mandala che, proprio per ricordare la caducità della vita, si dissolveranno al termine delle danze con l’uscita di scena dei ballerini uno alla volta, in un eterno ciclo di creazione e distruzione.
I balli mi sono sembrati veri tour de force: un unico cham può durare anche più ore (!), ed è un continuo turbinare, piroettare, inarcare la schiena, balzare. Si balla vestiti di abiti in seta riccamente decorati oppure anche a torso e piedi nudi, con il volto coperto da una grande maschera di cartapesta.
Alle donne spetta il compito di riempire i tempi morti, intrattenendo la folla tra una danza e l’altra mentre gli uomini si riposano e cambiano costume. Giovani fanciulle allietano gli spettatori con canti soavi e danze molto più composte: niente salti e giravolte, la gestualità è affidata esclusivamente alle loro mani, mentre i piedi compiono passi piccolissimi.
Completamente rapita dall’atmosfera gioiosa ma in qualche modo greve degli tsechu, mi soffermo sui dettagli: mi piace vedere come le ragazze si tengano non per mano ma per i mignoli, mi piace osservare da vicino le scarpe di panno a punta o i calzoni fluorescenti e quelli a grossi pois che spuntano ad ogni piroetta. E ancora, i foulard di seta che sventolano, i teschi su di un copricapo, gli occhi di un ballerino che si intravedono appena sotto la sua maschera da gallo, le braccia rigate di sudore dopo tanti balzi.
Durante ogni tsechu, è impossibile non notare un singolare figuro: porta un vestito a toppe, una maschera rossa. Non segue le coreografie ma saltella di qua e di là, fermandosi spesso a intrattenere il pubblico con fare da buffone: è l’atsara. Ma attenzione: come la tradizione shakespeariana ci insegna, i buffoni non vanno presi per ciò che sembrano! L’atsara – temine che deriva dalla parola sanscrita Acharya (sacro maestro) – simboleggia infatti il buddista illuminato, colui che ha girato l’universo per domare gli spiriti maligni. I due oggetti che porta con sè sono emblematici del suo status: un palloncino e un grosso fallo in legno; il primo rappresenta la vescica di maiale che i maestri buddisti utilizzavano per raccogliervi i mali del mondo, mentre il secondo indica l’acquisizione della saggezza.
E non è tutto! Gli atsara sono dei maestri anche giù dal palcoscenico: si tratta infatti di ex-ballerini professionisti che, oltre a intrattenere il pubblico, hanno il compito di controllare che le danze si svolgano al meglio, eventualmente correggendone i passi.
E’ importante notare che sono le uniche persone a cui è permesso burlarsi della religione in un contesto (e, più in generale, in una società) che alla religione attribuisce enorme importanza: durante la performance, li vedrete chiacchierare con i vecchietti, far ridere i bambini, abbracciare le ragazze più giovani e carine e pronunciare battute salaci, facili da comprendere dato che… i gesti osceni non lasciano spazio al dubbio.
Un potente gong annuncia il prossimo cham: è la volta della danza dei tamburi. Ciascun ballo è accompagnato da strumenti tradizionali suonati da un’orchestra e talvolta, come in questo caso, dai ballerini stessi. Lo dzong si riempie del suono di flauti di bambù, di cimbali, di corni di torno o bufalo, delle trombe e del Lag Nga, un tamburo ‘portatile’ tondo e piatto che si suona con un batacchio ricurvo.
Durante la performance i danzatori sono in uno stato di profonda meditazione. Si trasformano nelle divinità che rappresentano in scena e i loro mudras (gesti sacri) e i loro mantra si dice abbiano il potere di donare meriti per la vita successiva a chi li guarda e li ascolta. Compiono una vera e propria azione purificatrice che allo stesso tempo illumina e benedice gli spettatori o persino l’intera regione, come nel caso del Jambay Lhakhang Drup tsechu, sicuramente il festival più particolare del Bhutan, che prevede un ballo di mezzanotte con danzatori completamente nudi, ad eccezione della maschera di cartapesta a coprire il volto (ricordo che siamo in novembre e sull’Himalaya…).
Oggi gli tsechu sono patrimonio culturale dell’Unesco, eventi religiosi genuini, conservatisi nella loro forma più pura solo in Bhutan e in nessun’altra parte del mondo. Non sono attrazioni turistiche, non si paga l’ingresso per assistervi. Sono spettacoli che di certo non capitano tutti i giorni e un tour in Bhutan che si rispetti non può certo prescindervi!
Cosa ne pensate? Avete mai assistito a rappresentazioni particolari in giro per il mondo?
Il Bhutan mi incuriosisce molto perchè è un Paese di cui sento parlare poco. Mi sembra di essere stata risucchiata da un vortice di colori e, mentre leggevo, quasi sentivo l’incalzare del ritmo dei tamburi. Non conoscevo gli tsechu ma assistere a uno spettacolo del genere sarebbe un onore. Non ho mai partecipato a nulla di così speciale *.*
Hai detto bene Roberta: anch io mi sono sentita onorata! È un evento così speciale e carico di atmosfera che proprio non saprei a cosa paragonarlo!
Meravigliose le maschere della danza dei tamburi e meraviglioso tutto, anche i coloratissimi vestiti! Che grande privilegio che hai avuto Cris!
Sono stata molto colpita dagli Atsara. Nooo che hai capito…i costumi, si-i-costumi! Mi ricordano vagamente le uniformi delle guardie svizzere al Vaticano 😛
Ma come hai fatto con le foto? Sono tranquillamente fotografabili questi eventi?
Ora sono molto curiosa (anche sui canti delle donne) vado a vedere se su Youtube trovo qualcosa.
Ti abbraccio! 😉
Ciao Dani,
le foto si possono scattare senza problemi, basta non intralciare nessuno 🙂 Sui canti delle donne non sono riuscita a sapere molto nemmeno io a dir la verità, ma su youtube ci sono diversi video.
Un abbraccio a te!
cris