Un museo, una bandiera, troppe guerre: la Fortaleza di Luanda

L'entrata della Fortaleza de São Miguel, Luanda
Nel Museo della Fortaleza, elicotteri abbattuti e carri armati scalfiti dai proiettili rivelano il sanguinoso passato dell'Angola...

Una domenica come le altre. Un hambúrguer e una passeggiata sulla Marginal, il lungo mare di Luanda. Al solito, i poliziotti sono numerosi, i lunghi fucili appesi sul davanti. Scacciano malamente i bambini della strada che ci accompagnano per qualche passo con quel sussurro incessante – Madrinha, madrinha! Chef!

La Fortaleza di São Miguel svetta sopra di noi, su quel promontorio che guarda la città dall’alto. Costruita nel 1500, era la sede centrale del governo portoghese: qui si amministrava l’Angola-colonia, qui si gestiva il traffico degli schiavi, qui si scrutava l’orizzonte e si dava fuoco alle polveri. Oggi, come un ex-soldato incapace di recidere i legami con il passato, la fortezza è diventata un Museo: quello das Forças Armadas, naturalmente. Andiamo a vederlo.

Per raggiungerlo, attraversiamo una piazza dai palazzi bassi, dalle case in tinta pastello. Colori e architettura sono in forte contrasto con i grattacieli in costruzione alle spalle, con i locali moderni della Marginal. In un vecchio condominio, tante finestre si aprono come orbite cieche su balconi di poveri panni stesi. Appena sotto il tetto di una larga casa color pesco, si vedono dei buchi. Ho letto che alcuni edifici sopravvissuti alla guerra civile ne portano ancora i segni: forse questa casa è proprio una delle superstiti; i fori, i segni dei proiettili esplosi non troppi anni fa.

In mezzo alla piazza, un paio di senza tetto dormono su panche di pietra, una mano al viso a scacciare le mosche e, ai piedi, le buste di plastica zeppe dei pochi averi, le stesse che accompagnano gli homeless di tutto il mondo. C’è un monumento nella piazza, un inno al socialismo: tra kalashnikov e altre armi d’assalto, spuntano in rilievo i volti del Che, di Fidel Castro e di Agostinho Neto, primo presidente della Repubblica d’Angola.

Bello, bellissimo lo scorcio che vedo sullo sfondo. Dimentica della poca sicurezza e della scarsa pulizia, per un attimo mi pare di essere a Cuba, anche se Cuba non l’ho vista mai. Eppure questo scorcio mi riporta alla mente certe foto dell’isola: un’atmosfera un po’ retrò, una casa scrostata, verde ruggine, una finestra come un oblò, gente seduta su sgabelli di plastica, a vivere lenta. Tanti balconi, ancora, su cui si affacciano porte socchiuse e porte spalancate, con le persiane scheggiate e le vetrate incrinate. All’interno, stanze piene di spifferi e chissà che altro. Faccio qualche foto. Mettere in bella vista la propria macchina (sebbene sia una semplice compatta!) non è certo l’ideale, ma non importa; per una volta, mi sembra di aver trovato la Luanda che cercavo.

Per entrare nella Fortaleza di São Miguel passiamo sotto ad un grosso arco a forma di stella, emblema militare ma anche – sulla bandiera angolana – simbolo del popolo. Ci aggiriamo tra macchine da guerra scalfite dai proiettili, carri armati dai vetri infranti. Aeroplani leggeri, code di elicotteri abbattuti. Armi, munizioni, cannoni puntati direttamente sulla baia. Nonostante il terribile passato coloniale, è il passato recente a suscitare più impressione. Gli ultimi sessant’anni del Paese hanno visto l’Angola impegnata in lunghi e diversi conflitti: la guerra d’indipendenza dal Portogallo (1961-75), la guerra civile (1975-2002) e persino la prima guerra del Congo quando, sul finire degli anni ’90, lo stato si è schierato a favore dell’etnia Tutsi.

Mi viene in mente un articolo letto poco tempo fa. Se dovessi fuggire dalla tua terra portando una cosa, una cosa soltanto, cosa porteresti? E’ la domanda che sta alla base del progetto “The Most Important Thing”, idea del fotografo americano Brian Sokol che, con la sua macchina, ha immortalato centinaia di rifugiati di guerra provenienti da Sudan, Congo, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Angola. Le risposte sono state le più diverse: un martello, un rosario, un autoritratto di gioventù, un materassino e persino un’elegante giacca da uomo, non per vanità ma perché appartenuta al padre defunto.

Secondo un rapporto di Amnesty International del 2016, nel mondo, i rifugiati sono oltre 5O milioni e, in Angola, la situazione è particolarmente drammatica: come riporta l’articolo, “le leggi sulla diffamazione e sulla sicurezza vengono sistematicamente usate per intimidire, arrestare e imprigionare persone che avevano espresso pacificamente le loro opinioni, e le raccomandazioni delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani vengono sistematicamente ignorate”. E qui, nel Museo delle Forze Armate, tra granate e camionette militari, ti rendi conto che il passato, tanto passato poi non è. O, per lo meno, è ancora tale da avere ripercussioni forti, fortissime sul presente.

fortaleza luanda

Mossa da un vento tiepido, sulla mia testa ondeggia la bandiera angolana. Che ha il nero dell’Africa, il rosso del sangue versato, una ruota dentata, una stella e un machete. E un drappo con su un machete la dice lunga sullo stato che rappresenta. Non è proprio come stare sotto a un tricolore o alla Union Jack, credimi.

Eppure, se c’è una cosa che vivere in Africa mi ha insegnato, è il rimettere tutto in prospettiva. Perché se in un primo tempo ho scosso la testa pensando a com’è che sono finita a vivere in un Paese con un machete sulla bandiera, in un secondo momento ho realizzato che, in fin dei conti, questa bandiera non è poi così male. Anzi, è proprio bella perchè, al di là delle valenze politiche, esprime la forza, la rabbia e il coraggio non solo dell’Angola ma dell’Africa tutta.

Questa giornata, io la ricorderò così. E tu, forse, ricorderai questo post come una cartolina da uno dei pochissimi luoghi al mondo che, il turismo, ancora non sa cos’è.

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7 Comments

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  1. says: Francesca

    Io ricorderò questo post come uno dei tuoi tanti bellissimi post che non riesco a commentare diversamente ma mi lasciano con tanti pensieri aggrovigliati.
    p.s. perchè un martello? non riesco a capire..

    1. says: Cris

      🙂 grazie! Un machete volevi dire?

      Esattamente non so perchè, però – insieme alla ruota dentata – il riferimento è chiaramente all’emblema sovietico falce/martello. Un’ipotesi potrebbe essere che il machete è uno strumento sia da lavoro sia da assalto ed è tipicamente africano… Non saprei!

  2. says: Alexandra

    E’ terribile per me quel tipo di rappresentazione della forza, della rabbia e del coraggio, anche perché mi pare di capire che comunque dalla sua storia sanguinosa l’Angola non ne sia uscita del tutto, dalle guerre sì ma non dalla dittatura, dalla corruzione, dall’arbitrio. Però credo di capire quello che vuoi dire, è proprio in queste situazioni che la forza incredibile dell’uomo di resistere anche alle condizioni più avverse emerge in tutta la sua drammaticità ma anche nei suoi aspetti straordinari. Non riesco a immaginarlo fino in fondo, eppure mi pare che si possa percepirne almeno un’idea, anche solo molto vaga.

    1. says: Cris

      Ciao Alexandra,
      è proprio questo. A una prima, superficiale impressione, forse si potrebbe pensare che un Paese con un machete sulla bandiera sia ‘indietro’, per non dire ‘incivile’. In realtà no, il machete credo intenda testimoniare proprio l’opposto: un passato da superare ma da non dimenticare e, come dici tu, la capacità di resistere e di reagire.

  3. Per fare eco alla tua ultima affermazione è vero, tuttavia le tue parole e le tue impressioni arrivano tutte, credimi!
    Come sempre ti mando un grande abbraccio Cris! 😉

    1. says: Cris

      Un abbraccio a te, Dany! Tutto bene? E’ da un po’ che non passo sul tuo blog: vado a farci un giro ora! 🙂