Sentire la magia di Uluru

tour uluru
Uluru
Racconta storie, parla di miti. Cela segreti. È molto di più di una bella foto. Uluru è magico.

Ci siamo arrivati in auto. Abbiamo attraversato un deserto rosso, con qualche arbusto secco, come gettato lì a caso. Ogni tanto un canguro balzava via, un altro si fermava a guardarti giusto quel mezzo secondo in più prima di fare altrettanto.

Succede all’improvviso: inconfondibile con la sua mole rossa, Uluru piomba nel nulla come un meteorite, emerge come l’enorme punta di un iceberg. E infatti, il grosso del monolite non lo si vede: se in superficie si innalza di 300m, nel terreno sprofonda per oltre 7km.
Fermiamo l’auto per osservarlo meglio. E’ ancora distante, ma l’energia che sprigiona è palpabile e cresce poco alla volta, diventando quasi opprimente. Il cuore batte forte e penso che se quel momento avesse una colonna sonora, di sicuro sarebbe quella di Arancia Meccanica, nell’attimo in cui Alex vede per la prima volta una donna dopo il trattamento Ludovico. Una musica drammatica, carica di aspettativa, solennità e timore tutto insieme.

Uluru – non chiamiamolo Ayers Rock – è la montagna sacra del popolo Anangu. Questa tribù, che ne è custode, ritiene che esso sia stato creato durante il Dreamtime, quando gli Antenati – esseri dalle sembianze antropomorfe – hanno dato forma alla Terra, percorrendola in lungo e in largo sulle vie dei canti. Nominandole e cantandole, gli Antenati crearono tutte le cose. Il tempo del sogno è ciò che in lingua aborigena si chiama Tjukurpa: è la Legge, il fondamento della cultura aborigena stessa. A fare da contrappunto alla Tjukurpa, troviamo la Tjukuritja, ossia l’insieme delle tracce che gli Antenati lasciarono nel loro peregrinare. Sono sorgenti, crateri, alberi, pietre. La prova tangibile che gli spiriti sono ancora qui.

Uluru è un esempio di Tjukuritja. Guardandolo, solitario e gigantesco nel cuore di quel niente che è l’Outback australiano, non è possibile non pensare al mito della creazione. Una creazione che, però, non ha nulla di scientifico o di religioso, ma affonda le sue radici… dove? Chissà. Certamente in qualche punto indefinito, senza spazio e senza tempo. Un peccato, un vero peccato che la maggior parte della storia di Uluru non sia dischiusa a noi piranypa (non-aborigeni). Il suo mito è custodito nella mente e nel cuore di pochi eletti, tramandato da una generazione all’altra.

Perchè la sacralità di Uluru si percepisce in modo così forte? Difficile spiegarlo. Il potere di questo monolite è qualcosa di misterioso e indecifrabile, che ti attrae a sè con la forza di un magnete. Certo è emozionante osservarlo al sorgere e al calare del sole, prima una sagoma nera che si staglia contro le prime luci del giorno e, poi, un masso infuocato, incendiato dal tramonto.
In zona, le attività proposte per ‘vivere’ Uluru si sprecano: tour fotografici, cene sotto le stelle, cammellate e persino arrampicate che, sebbene vietate dal popolo aborigeno, continuano ad attirare qualche imperterrito coglione turista.

Personalmente, però, credo che per sentire davvero la magia di Uluru nessuna esperienza sia equiparabile alla base walk, un sentiero di circa 10km che gira tutt’intorno al monolite. Non è un percorso difficile ed è forse l’unica attività che puoi fare con quella calma necessaria per capirlo meglio, quel grosso masso. L’unica che ti consente di leggerlo. Perché Uluru è, in fin dei conti, una sorta di testo sacro. C’è scritto il passato, il presente e il futuro sulle sue pareti.

Solo camminandogli accanto ti accorgerai che il soggetto di quella fotografia vista migliaia di volte, ha in realtà una superficie estremamente complessa, frutto di un’erosione a tratti inspiegabile. Ci sono macigni sgretolati, fessure nella roccia che si aprono come occhi e orecchie, striature nere lasciate dall’acqua, solchi in cui era (è?) impresso il corpo di un’antica divinità. Ci sono protuberanze, pieghe e caverne dove si tenevano rituali iniziatici, con le pareti ricoperte di disegni rupestri da cui volgere lo sguardo se non destinati al tuo sesso. Perché nella cultura aborigena alcuni luoghi sono riservati soltanto all’occhio delle donne altri solo a quello degli uomini. Ascoltalo: Uluru parla. Sussurra, nasconde o grida le sue leggende, la sua storia. Ogni singola macchia sulla roccia, ogni apertura, scalfittura o rilievo ha un significato.

Quei grossi macigni franti sono i resti di Kandju, la lucertola benigna, che a Uluru perse il suo boomerang – scavò a lungo, lasciando nella roccia numerosi buchi – e morì nella ricerca. Quei solchi sono le orme di un nemico in fuga. E quei sassi staccati, laggiù in fondo, sono le cosce del grosso gnu che il malvagio Lungkata, l’uomo lucertola, aveva rubato per cibarsene. La lunga riga nera là in alto è la traccia che ha lasciato morendo carbonizzato: non era stato attento al fuoco. E ancora, vedi queste fenditure? Proprio qui si trovano i corpi dei nemici abbattuti da Bulari, la madre terra. E là, guarda quanti fori! Sono i segni delle lance scagliate dall’armata di Liru, il velenoso Uomo serpente, quando ha osato sfidare Kuniya, la donna pitone.

Tutto questo, a noi che percorriamo la base walk, viene narrato da una serie di cartelli informativi. E tu andresti avanti a leggerli all’infinito, non fosse che, a un certo punto, essi si interrompono. Perchè? Forse ci avrai fatto caso: le foto che vedi sul web ritraggono sempre la stessa facciata di Uluru; tutti i viewpoint danno su di un unico lato. L’altro, il versante nord, è sacro alle tribù aborigene: lo si può guardare, certo, ma non fotografare né riprendere in video (ma non temere, il deficiente di turno che fa foto davanti al cartello please don’t take photos lo troverai sempre).

Del lato nord di Uluru, a noi piranypa non è dato di sapere nulla. Sappiamo solo che c’è una formazione detta ‘il Cranio’, nera e gigantesca, che ricorda appunto una testa umana, ma nulla di più. Continuiamo a camminare, a guardare le pareti. Passiamo di fronte al ‘cranio’ con un certo timore. Come ho detto, non ci sono più cartelli nè spiegazioni e le immagini che non ho potuto scattare andranno inevitabilmente a sfocarsi nella memoria. Del mistero di Uluru, non saremo mai messi a parte.

Ci sono luoghi che restituiscono immensità. Altri che ti riempiono di una strana malinconia per un mondo che non c’è più. Altri ancora che sembrano racchiudere la quintessenza della meraviglia del creato. E poi ci sono luoghi magici. Uluru, il posto che più ho amato in Australia e che da solo vale il viaggio, è tra questi ultimi.

E’ magia pura.

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3 Comments

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  1. I tuoi post riescono sempre a coinvolgermi ed è un vero piacere leggerti. Stavolta sono rimasta particolarmente colpita, perché ho ritrovato nelle tue parole le mie stesse sensazioni di fronte a Uluru. Ha davvero in sé qualcosa di magico, di ancestrale, che non ho trovato in nessun altro posto. Hai detto benissimo: è un testo sacro. E il silenzio che lo circonda al tramonto, quando il cielo cambia colore, è carico di energia. Grazie per avermi fatto ripensare a quelle emozioni.

    1. says: Cris

      Mi fa piacere trovare qualcuno che la pensa come me: mi stupisce sempre leggere recensioni che lo giudicano ‘overrated’ etc… Non tutti hanno la stessa sensibilità, questo è certo, però non ‘sentire’ proprio nulla mi pare strano in un posto simile! Il fatto di non aver speso un giorno in più a Uluru è un mio grande cruccio e se mai ci tornerò di sicuro ci passerò più tempo!

      1. Sembra molto strano anche a me che la gente non provi nulla… non me lo so spiegare. Pensa che è uno dei ricordi più vividi che conservo. Come te, anch’io avrei voluto passarci più tempo e mi chiedo se tornando proveremmo le stesse sensazioni…