“In molti vengono qui a cercare il lato mistico o primitivo degli himba, convinti di trovare chissà cosa. La verità è che sono esattamente uguali a noi”.
Ce li introduce così, gli himba, la nostra guida.
Lasciato il Damaraland, abbiamo attraversato il Kaokoland per arrivare alle cascate Epupa, un remoto angolo di terra al confine con l’Angola. Ci è stato detto che i villaggi in questa zona sono più autentici di quelli nei dintorni di Opuwo. Se sia vero non lo so, quel che posso dire è che sono stata ben contenta di essermi lasciata questa cittadina alle spalle. E’ un brutto miscuglio Opuwo: un paesone di frontiera in cui si ammassano baracche, mini-market e locali più o meno infimi dove prendere una birra o cambiare uno pneumatico. Una strada larga in cui sgomitano ragazze himba e mendicanti seminude disposte a farsi fotografare per pochi dollari, tamarri dagli occhiali a specchio e anziane donne herero, fuori dal tempo e dallo spazio nei loro abiti vittoriani con l’inconfondibile cappello a cono. Sa di dignità perdute a favore di qualche spicciolo, di alcool e donne a poco prezzo, Opuwo.
Le cascate Epupa, invece, sono una boccata d’aria fresca: dopo tanto deserto, finalmente un po’ di verde anche in Namibia! Sulle rive del Kunene, il fiume che le genera, coccodrilli che indugiano a bocca aperta e scimmiette antipatiche che lanciano frutti duri dall’alto di una palma. E tanti, tantissimi baobab.
Entriamo nel kraal, il villaggio. Una manciata di capanne, rudimentali ma solide, che le donne himba hanno costruito con un impasto di sterco di vacca, fango e rami. Vediamo l’okuruwo, il fuoco sacro che arde perennemente per allontanare i demoni ma anche per riscaldare quella sorta di porridge che costituisce l’elemento principe della dieta della tribù. E poi l’otjunda, un recinto di rovi per proteggere il bestiame dagli animali selvatici e impedirne la fuga. E’ tutto qui.
Moro – ciao – ci dice la fanciulla che ci viene incontro. E’ bellissima. Una sorta di amazzone africana, o una principessa del deserto. E’ la nipote del capo villaggio. Giovane, non ancora o appena ventenne ma già un bimbo al seno, ha gli occhi buoni, un po’ altezzosi. Le labbra carnose, i capelli riuniti in trecce spalmate di una pasta rossa, al termine delle quali ha applicato ciuffi di peli di capra. Un gonnellino di cuoio e un numero imprecisato di bracciali, monili, conchiglie, cavigliere. Niente altro: è la nuda pelle ramata il pezzo forte della sua livrea tribale, una livrea che già la dice lunga sul popolo himba. Racconta una storia di isolamento, di mancato contatto con la puritana opera di colonizzazione europea.
Periwi – ci dice un’anziana con gli occhi che il velo della cataratta ha reso azzurri. Perinawa – dobbiamo rispondere.
E poi ancora, periwi – perinawa: si presenta una donna matura, i grossi seni pendenti ma ancora pieni e due vivaci bimbi al seguito. Ci offre da bere del latte munto da poco, che lascia spessi baffi di panna sui visi dei fratellini. Fortunatamente è la nostra guida a toglierci dall’imbarazzo: come in ogni cultura accettare cibo è segno di rispetto e gratitudine ma… il nostro stomaco molto probabilmente troppo grato non sarebbe stato. Periwi – perinawa: è la volta di una giovane intenta a pettinarsi le ciocche posticce nella sua capanna, poi di un’altra indaffarata a preparare il burro di capra.
A parte un paio di ragazzetti, incontriamo solo donne: gli uomini seguono il bestiame in transumanza e, spesso, restano fuori per settimane. Non per questo però la vita al villaggio si ferma; sono le donne il motore della comunità: allevano i figli (ma anche capre e galline), costruiscono le capanne, intrecciano bracciali, cesti e manufatti a uso proprio o da vendere ai turisti, cucinano, pestano l’ocra per ungersi il corpo e raccolgono l’acqua. Non stupisce che la civiltà himba sia di stampo matriarcale: è infatti il clan uterino che determina lo stato sociale dell’individuo.
Scatto foto da lontano, agli oggetti, alle capanne. La nostra guida se ne rende conto e mi dice di non farmi problemi, lo scatto è ‘incluso’ nella visita al villaggio. Gli spiego che non mi sento a mio agio. Che non mi piace puntare la macchina in faccia alle persone perché è ovvio anche a un bambino che la gente di questo villaggio, se potesse, preferirebbe evitare. Gli occhi sfuggono, le attività si fermano. C’è qualcosa di sbagliato e la sensazione è che sia dietro all’obiettivo, non certo davanti.
Entriamo nella capanna della ragazza bellissima. Nonostante il caldo estenuante, l’interno è fresco, quasi accogliente. Una larga pelle di vacca ricopre tutto il pavimento; è uno dei pochi beni che l’himba, nonostante il suo carattere nomade, si trascina dietro per tutta la vita: è l’oggetto nel quale verrà avvolto al momento della sepoltura. Anche per questo, sedermici su mi fa un po’ effetto.
Alle pareti della capanna sono appesi drappi di pelle e copricapi; al centro arde un piccolo braciere di erbe aromatiche. Due oggetti emblematici: un ‘cuscino’, in realtà uno scomodo poggiatesta in legno riservato ai soli uomini maritati, e l’otjize, il famoso unguento composto da erbe pestate, burro di capra, ocra rossa e altri ingredienti naturali segreti da spalmarsi su corpo, capelli e vesti. Perché questa pratica, ripetuta ossequiosamente più volte al giorno? Tante le versioni, tante le motivazioni: per ragioni estetiche, per ricreare la lucida pelle dei capi di bestiame, sacro al popolo himba; per proteggersi dal sole e mantenere giovane la pelle; per ricordare il colore del sangue e, dunque, della vita; per motivi di igiene, dato che soltanto agli uomini è consentito lavarsi.
E poi, la magia. Per la prima volta, forse perché in casa propria, la ragazza bellissima cambia espressione, le fattezze diventano più dolci, rilassate; le distanze si accorciano. Addirittura si lascia sfuggire un risolino quando vede la nostra espressione nel momento in cui ci viene spiegata la funzione del ‘cuscino’. So che è in questo preciso momento che si lascerà scattare le uniche due foto che abbiamo deciso di farle. Del resto, non servono decine di primi piani per descrivere la bellezza e la dignità di questo popolo.
Rispetto agli scorsi decenni, gli himba si sono ridotti drasticamente: oggi sono circa 5000. La loro è una vita seminomade, dura, condotta in uno dei territori più ostili del pianeta. Ho letto molti articoli che parlano degli himba come di un popolo che rifiuta la modernità, che vuole rimanere ancorato al passato ma che viene, ahimè, ostacolato dal progresso. E’ davvero così? No, secondo la nostra guida. Questa è piuttosto la bella favola che ci raccontiamo noi occidentali, aggrappati ad un’idea romantica dell’Africa e delle sue tribù, al mito del buon selvaggio: buono, coraggioso e fiero ma – soprattutto – selvaggio.
La realtà è che, esattamente come tutti i popoli del mondo, anche gli himba sentono la necessità di evolversi: perché impiegare tre giorni a ricavare un recipiente dal tronco di un albero quando si possono comprare secchi di plastica? Perché raccogliere e pestare erbe, produrre burro dal latte di capra, ricavare ocra dalle pietre e mischiare tutti gli ingredienti quando i negozi vendono creme già pronte? Tanti giovanissimi poi, nemmeno la seguono più la pratica di ungersi il corpo; non hanno il desiderio di perpetrare le tradizioni nè di ascoltare le storie dei più vecchi.
E le nuove generazioni, forse, potrebbero addirittura mettersi a commerciare bestiame, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe portare: non sarebbe più la discendenza matrilineare a determinare lo status di un individuo bensì il vile denaro. Che, ovviamente, sarebbe in mano all’uomo, non alla donna.
E, infine, il turismo. Anche noi che visitiamo questi villaggi, volenti o nolenti, acceleriamo l’estinzione del popolo himba. Le strade, i pulmann di turisti. Siamo anche noi, con le nostre macchine fotografiche, i nostri vestiti e i nostri gadget, ad aprire gli occhi ad un popolo che per secoli – e fino a pochi decenni fa – è vissuto completamente avulso da tutto ciò che era civilizzazione. E’ troppo tardi per invertire il senso di marcia: pena il diventare una triste caricatura di se stesso a esclusivo beneficio dei turisti, il popolo himba sembra essere giunto a un punto di non ritorno.
E forse, è l’ennesimo tassello d’Africa destinato a scomparire.
Un post davvero molto bello e interessante, con foto altrettanto belle ad illustrarlo, complimenti. È vero ciò che dici sul turismo e sull impatto che ha su certe culture. Ma penso che sia nella natura delle cose, nell evoluzione stessa del mondo. Anche a me è capitato di sentirmi molto a disagio, sia in Africa sia in Malesia al cospetto di alcuni popoli. Allora si cerca di entrare in punta di piedi, avvicinarsi con rispetto, rimanere al proprio posto. Ma è anche tanto bello confrontarsi con altre culture e magari imparare qualcosa. Grazie davvero di questo bel reportage, sono contenta di aver conosciuto attraverso di esso un altro pezzo di Africa!
Ciao Luna, grazie!
Sono convinta anch’io faccia parte del normale corso evolutivo: forse, come ho scritto, è l’occidente che vorrebbe che il buon selvaggio rimanesse tale nei secoli ma, giustamente, il ‘selvaggio’ – sempre tra virgolette – non ci sta. Svariate tribù africane si sono perse in questo modo… triste solo il progressivo sgretolarsi dell’Africa.
Bellissimo articolo, come sempre. Turismo, dici? Quanti turisti, in realtà, si spingono fino a queste zone d’Africa? Amo il taglio antropologico dei tuoi articoli: hai una buona capacità d’osservazione e mi piace che tu vada oltre la superficie. Peccato che l’Africa perda sempre più pezzi… Non so cosa rimarrà di autentico in questo mondo. Non so dove il viaggiatore vero possa incontrare le sue verità, visto che ormai è tutto (o quasi) a portata di smartphone.
P.S.: mi viene da ridere quando sento alcune occidentali non tollerare nemmeno una distanza di pochi giorni dai propri uomini. E poi leggo delle donne himba…
In realtà i turisti che si spingono fin lassù sono molti più di quanti si creda. Magari non ci vanno con la propria auto e non si fermano a dormire alle cascate come abbiamo fatto noi, ma ci sono pullman su pullman (appartenenti a tour operator, non mezzi pubblici) che fanno il tratto Opuwo-Epupa and back in giornata… per cui il flusso turistico c’è; poi figuriamoci ora che sembra che il mondo intero vada in vacanza in Namibia… (E cmq è uno sbattone farsi il tratto in giornata, non ne vale la pena).
Non so cosa rimarrà di autentico tra venti, anche solo dieci anni: per questo avevo scritto tempo fa che spero che il Bhutan non apra mai troppo le sue frontiere. Mi è sembrato un posto ancora ‘vero’ a tutti gli effetti.
Riguardo al PS… vedi che la guida aveva ragione? sono esattamente uguali a noi, anzi a te! :))
“Moro” Cris, da quanto tempo come stai!? 😉
E’ vero, sono proprio gli ultimi tasselli d’Africa e tu sei fortunata a poterli ammirare.
L’abbiamo visto anche nei secoli scorsi: l’estinzione del “mito del buon selvaggio” è una cosa inevitabile e non tutta la colpa è dell’uomo civilizzato(forse).
Meravigliose le foto e come le hai posizionate a mo’ di collage! *_*
Ti abbraccio!
Ciao Dany!
Eh sì è da un po’ che nn scrivevo perchè ero in italia in vacanza 🙂
(Capri naturalmente!!)
Ora sono già back in Angola con un po’ di saudade ma… tiriamo avanti!
Tu tutto ok? Un abbraccio a te!