In lingua locale, Serengeti significa qualcosa come ‘pianure infinite’. Insieme al Kruger, in Sudafrica, il Serengeti è uno dei parchi più estesi del continente, ma è forse il più speciale perché teatro di quell’incredibile esodo biblico che è la Grande Migrazione.
Per me, il Serengeti ha però un valore particolare perché è stato, dopo numerosi viaggi in Africa, il primo parco che mi ha reso testimone della ‘vera’ legge della savana. Perché i leoni che tornano dalla caccia li ho incontrati sempre o quasi. Spesso ho incrociato branchi di iene imbronciate ed errabonde e, meno spesso, leopardi sonnacchiosi. Quella che avevo visto era una savana a giochi fatti, dove i predatori non avevano mai tirato fuori gli artigli, mai digrignato i denti. Una savana edulcorata, in fin dei conti. E quella scena vista mille volte alla TV – la gazzella che corre, l’inseguimento del felino – continuava a rimanere tale.
In Tanzania, invece.
Al Serengeti la savana si è finalmente rivelata in tutta la sua spietata, affascinante realtà. Vedere un branco di leoni che caccia non è semplice: gli stessi ranger raccontano che le volte a cui vi hanno assistito le contano sulle dita di una mano. Perché, in fin dei conti, quel momento, quello del balzo, è una questione di secondi e lo si manca sempre per un pelo.
Quella volta, un branco di leoni – quindici, diciotto esemplari tra adulti e cuccioli – si stava riposando all’ombra di un albero. Tre gnu brucavano l’erba poco lontani. ‘Gli gnu li avranno pur visti, no?’ – mi dico. Ma se sugli gnu ho qualche dubbio, sui leoni sono certa: loro sì che li hanno notati. Partono in tre, tre leonesse. Si dispongono ai vertici di un immaginario triangolo. La nostra guida Rasheed spegne la jeep. Potrebbe volerci tempo, dice, ma se siamo fortunati…
Aspettiamo. Le leonesse procedono caute, nascoste dall’erba alta. Probabilmente sono controvento, ecco perché gli gnu continuano a mangiare come se nulla fosse. E poi la tattica perfetta, un agguato che sembra studiato a tavolino da un generale pluri–stellato. Con un balzo la prima leonessa rompe l’attesa. Da sola, rincorre gli gnu, spingendoli in una direzione ben precisa, quella della compagna ancora nascosta. Ma per poco: quando la seconda leonessa si scopre, gli gnu tornano indietro, verso la prima. Braccate su entrambi fronti, due delle tre bestie sono abbastanza lucide da fuggire; ma per il terzo esemplare non c’è scampo. Tenta ancora la fuga però, ed è allora che si fa viva la terza leonessa, agile e fresca.
E’ un attimo: la corsa senza speranza di una preda ormai affaticata e poi il salto, le unghie nella carne, la morsa alla gola. Lo gnu è a terra. In poco tempo tutto il branco vi è addosso. Rivoltato a pancia in su, le sue gambe fremono in un ultimo disperato istinto di sopravvivenza mentre le sue carni vengono aperte. E poi più nulla. Mentre viene sbranato, solo uno zoccolo rimane per aria, integro (lo vedi qui sotto?). Impossibile non provare pena per la povera bestia, impossibile non provare ammirazione per il leone, per quella tattica assolutamente perfetta. Non poteva andare in altro modo che così.
Incredibile quanto nella savana nulla sembri lasciato al caso, nulla vada sprecato. Mentre tre ghepardi masticano stanchi un ultimo brandello di carne della loro vittima, su di un albero si accumula uno stormo di avvoltoi in attesa del proprio turno. I ghepardi lasciano la preda, si riposano nell’erba, la pancia gonfia come un pallone. Un avvoltoio, forse il più vecchio, forse il più forte, si fa avanti, avido di interiora. E’ enorme, sinistro, arcigno. Procede cauto, con passo quasi felpato – perché si avvicina alla carcassa camminando, non in volo – e, forse, lo fa per non irritare i ghepardi.
Quando è ormai vicino al cadavere, i felini si alzano, se ne vanno. E’ il segnale. Ed è come se l’albero intero spiegasse le ali. In un attimo, tutti gli avvoltoi volano su quel che resta della preda. In un tacito patto, i felini hanno acconsentito a cedere gli avanzi del loro pasto ed ora è tutto uno schiamazzo, uno spintonarsi, uno stridere. Nell’aria volano piume, lunghi fili di gomitoli sanguinolenti, intestini srotolati. Mentre riguardo le foto, scorgo il solito zoccolo integro che nessuno vuole. Ma può darsi ci sia già una iena nei dintorni.
Già, le iene. Con quell’aria truce e sbruffona. Dicono che l’accanirsi di iene e licaoni sulla preda sia una cosa spaventosa: non lo so, non mi è mai capitato di vederli cacciare. Però, per la prima volta, qui al Serengeti le ho viste nutrirsi, le iene. E’ successo che un giorno, c’era un grosso ippopotamo disteso accanto ad una pozza d’acqua. Il mattino dopo, Rasheed ci fa: ‘Ricordate l’ippopotamo di ieri? Ecco, probabilmente era andato lì per morire ed è morto. Le iene sono già lì da un pezzo’.
Eccole, infatti. Affamate di quella fame rabbiosa che solo le iene hanno, immergono il lungo collo nella carcassa ormai sventrata. Ci mettono proprio tutta la testa dentro e ne escono completamente rosse di sangue; persino le orecchie hanno chiazze vermiglie. E non sono sole, con loro ci sono una decina di avvoltoi. Mangiano insieme, seduti allo stesso macabro banchetto: forse l’ippopotamo è talmente grosso che c’è spazio per tutti, oppure, con la iena, l’avvoltoio non ha quel rapporto gerarchico che ha con il ghepardo, chissà.
E poi ci imbattiamo in un cucciolo di zebra, un lattante dal pelo ancora morbido. Ha perso il suo gruppo, lasciato indietro da una madre pessima o semplicemente distratta. E’ così disperato che pur di seguire qualcuno inizia a correre dietro la nostra jeep e Rasheed rallenta per cercare almeno di condurlo in uno spiazzo dove siano presenti altre zebre. Troviamo un gruppo; lasciamo lì il puledrino e acceleriamo affinché non ci segua più.
– E’ spacciato comunque – dice Rasheed. Se non viene sbranato prima, morirà di fame: difficile che un’altra madre lo adotti e, alla sua età, ha ancora bisogno di latte.
– Potevi non dirmelo – faccio io.
– Ma è la verità – ribatte Rasheed.
Cercavo la savana ‘vera’ e, purtroppo o per fortuna, l’ho trovata al Serengeti.
In tutta la sua crudele bellezza.
Questo tuo articolo è bellissimo.
Davvero.
Ho assistito alla caccia… in Kenya, in Tanzania e in Namibia ma, grazie al cielo, non ho mai assistito a una caccia andata bene per il carnefice e male per la vittima.
Sì, certo… infinite volte ho visto i grandi felini, le iene e gli avvoltoi nutrirsi, ma la preda era già morta. Per fortuna.
Non credo di essere pronta. Cambio canale anche con i documentari in tv. Lo so che è sciocco, che è natura, che è la catena alimentare… ma ho fatto fatica a finire di leggere quanto avevi scritto… figuriamoci come sarebbe vederlo con i miei occhi….
Parole emozionanti….
Elena
Ciao Elena,
anch’io pensavo che non sarei riuscita a vederla ‘tutta’, sai? Non ti nascondo che alla fine non è che avevo la lacrima in tasca ma quasi: ovviamente è triste e drammatico vedere la morte di un essere vivente, in maniera così cruda poi… Però allo stesso tempo bisogna ricordare che se così non fosse, a morire sarebbero i leoni, e di fame… Pensare in quest’ottica, al ‘cerchio della vita’ (per citare Ivana Spagna e sdrammatizzare ;P), aiuta a vedere le cose diversamente e ti fa capire quanto sia bella, anche se crudele, la natura. ♥
Un abbraccio,
cris
Realtà cruda ma realtà vera e naturale. Ho assistito ad attacchi del genere in Kenya ed in Sudafrica. Mi sembrava di assistere ad un documentario trasmesso in TV; ma no è la vera vita. Una esperienza da vivere fino in fondo. Bel post.
…quand si parla di ‘legge della savana’ e di ‘comincia a correre’! Fino a che non si è testimoni di questi spettacoli tristi ma al tempo stesso grandiosi non ci si rende conto di cosa significhino queste parole!