Sulla strada per Bumthang, nel Bhutan più rurale

Un folle tragitto sul ciglio della montagna tra yak, popolazioni nomadi, valichi ricoperti di bandiere di preghiera e uno dzong magico.

Bumthang si trova ad appena 270km da Thimpu, capitale del Bhutan.
Per raggiungerla ci impiegheremo due giorni.

Se già andare in Bhutan non è esattamente così comune, ancor più raro è spingersi a est, al di là della triade di città Paro-Thimpu-Punaka. Perchè? Perchè la viabilità di questo Paese mette chiunque a dura prova. C’è una sola strada, qui. Attraversa la nazione da est a ovest ed è stata costruita negli anni ’60: prima ci si muoveva solo a piedi e con gli yak. Corre sul filo delle montagne, stretta stretta, in un saliscendi di tornanti e valichi ad alta quota. A mala pena ci passa un’auto, figuriamoci quando ne arriva una dal senso di marcia opposto.

“Noi siamo abituati, ma molti turisti finiscono per soffrire il mal d’auto e… dopo un po’ ci chiedono di tornare indietro” – ci avverte Sonam, la nostra guida, sorridendo come al solito sotto i baffetti. Siamo in giro con lui da ormai 4 giorni e, quando sorride così, ancora non capisco se ci prende in giro oppure no. In ogni caso, essendo abituati alle strade del Congo, pensiamo che quelle in Bhutan non possono essere poi tanto peggio.

Partiamo di buon mattino, l’enorme Bhudda che veglia su Thimpu ci guarda imperturbabile come sempre. Dopo appena 45 minuti facciamo sosta in uno dei punti più pittoreschi del tragitto: siamo al Dochu-la pass (3.088 m), dove è stato eretto un grandioso memoriale costituito da 108 chorten (monumenti religiosi).


Sarà perché qui riposano idealmente dei soldati bhutanesi – morti nel 2003 per difendere il Paese da un gruppo di insurrezionisti indiani – , saranno i tanti Buddha dipinti su ciascun chorten, sarà l’aria, sarà il paesaggio: insomma, si tratta di un luogo che trasuda pace e che ti aiuta a ritrovare la calma interiore. Puoi camminare tra i chorten, oppure semplicemente sederti sugli scalini di pietra per ammirare quanto hai di fronte. Da qui, nelle giornate più limpide – proprio come oggi – si gode di una meravigliosa vista sulla catena dell’Himalaya e sui maggiori picchi del Bhutan, tra cui il Gangkar, che superando i 7500m, è il più alto. Sono ben 21 le vette che superano i 7000m e, molte di esse, essendo totalmente inviolate, ancora non hanno nome.

Dopo il passo, il nostro percorso prosegue in una tortuosa discesa tra panorami incredibili: il verde delle valli è spezzato solo dai colori sgargianti delle bandiere di preghiera che spuntano a macchie e ci ricordano quanto sia importante la spiritualità in Bhutan.
Li avete mai visti gli yak? – Ci chiede Sonam. No, non ci è mai successo! Eccoli laggiù: scuri, giganteschi yak lanosi. Non li facevo così grandi. Ma oltre agli yak vediamo qualcosa di ben più interessante: tra i pascoli spiccano grosse tende blu, a formare una specie di villaggio. E’ un popolo nomade, sceso dalle creste più alte e fredde per consentire alle proprie bestie di continuare a foraggiarsi. C’è una bimba vestita con il kira, l’abito tradizionale delle donne: la giacchetta rosa, la gonna lunga e avvolgente che le sfiora le caviglie, i capelli corti e le guance rosse. Un vezzo: dei braccialetti colorati. Ha pochi anni, ma quel vestito in tutto e per tutto simile a quello della madre la fa sembrare una piccola donna. Mi stupisco a pensare che gli yak sono gli animali che conosce meglio, che vede tutti i giorni, così come alla sua età, io, vedevo cani o gatti.


La strada risale, si fa via via più angusta: non ci sono guardrail e sporgendomi appena dal finestrino dell’auto, riesco a vedere il ciglio della strada sgretolato. E sotto il baratro. Non vorrei fare questo viaggio con la pioggia, ecco.

Passiamo di fronte a uno stupa che mi ricorda molto il famoso Boudanath di Kathmandu, solo un po’ più tozzo. Si tratta del Kora Chorten che, come Sonam ci conferma, è stato costruito proprio sul modello nepalese. Singolare la leggenda che lo riguarda: si dice che un monaco bhutanese, non avendo con se carta e penna per fare uno schizzo del Boudanath, avesse intagliato la sua sagoma su di un radicchio, in modo da poterlo poi ricostruire una volta rientrato in patria. A tornare, tuttavia, ci mise molto tempo e così il radicchio avvizzì. Ecco perché il Kora ha questa forma tozza! La seconda credenza legata a questo monumento è invece più macabra: narra di una pia principessa che, per salvare la razza umana dai suoi peccati, si fece murare al suo interno in modo da poter meditare per l’eternità.

Tra una leggenda e l’altra – Sonam è una fonte inesauribile – raggiungiamo un altro passo, ancora più alto del precedente. A 3420m d’altezza, eccoci al Pele-la Pass. Ad attenderci lassù, dei macachi dalla pelliccia folta: molto più carini di quelli spelacchiati visti tante volte in Africa!!

Arriviamo a Trongsa che è già scesa la sera. Insieme ad altri quattro ospiti siamo gli unici ad alloggiare in una guesthouse che non deve vedere molti turisti durante l’anno. Veniamo accolti con il solito, cordiale kuzu zangpo-là!, l’unica parola in lingua dzongkha che ho imparato a riconoscere. Significa semplicemente ciao. La nostra stanza è spaziosa e accogliente e, al solito, decisamente troppo colorata per i miei gusti minimalisti.

Dal balcone si vede lo Dzong illuminato. Si tratta della fortezza più imponente del Bhutan, dimora del primo re del Paese: sorge proprio in cima ad un colle, adagiato come un drago in mezzo alla foresta, e questa posizione spettacolare crea l’illusione che esso scompaia tra le nuvole.

Infreddoliti, rientriamo in camera ma il freddo continua a pungere le ossa. Il radiatore troppo piccolo non ce la fa a riscaldare l’ambiente e guardando la porta che dà sul balcone mi accorgo delle fessure: spifferi. Sul letto però ci sono ben quattro piumini (!), belli compatti uno sull’altro. Dormo calda e bene, anche se preferisco non pensare al momento in cui, domattina, dovrò abbandonare la mia tana e…

…proseguire verso Bumthang. Il paesaggio è sempre più rurale, le persone che incontriamo sempre di meno. Chi ci vede ci guarda smarrito, quasi quanto noi guardiamo loro. Dove siamo finiti? A volte mi è capitato di sentire quella vocina in testa che dice che ops, magari questa strada era meglio non prenderla, magari era meglio tornare in hotel. Non qui però. Siamo in uno dei punti più sperduti del mondo, ma quella sensazione di protezione, di sentirsi inspiegabilmente bene, non ci ha mollati dal momento in cui siamo scesi dall’aereo.

Valichiamo l’ennesimo passo. Lo Yutong-la (3.400m) è tutto un groviglio di bandiere di preghiera – piccole Lungdhar o lunghe Manidhar –  alcune bianche, altre variopinte, alcune sbiadite dal tempo, altre nuove di zecca. Si sovrappongono le une alle altre, in un tripudio di colori, di auguri, di mantra mossi dal vento. Sono le bandiere i padroni di questo posto, coprono tutto il paesaggio circostante fino a stordirti, in una specie di edera di preghiera che ha inghiottito tutto e si è diramata in ogni direzione. Mentre Sonam approfitta di questa sosta per annodare una nuova Lungdhar, vediamo nuovamente gli yak che, incuranti della spiritualità del luogo, continuano a mangiare.

Scendiamo poi nella rigogliosa Valle di Chumey, a mio parere la più bella tra quelle viste: risaie, tetti ricoperti di peperoncini messi ad essiccare. Serviranno per preparare l’ottimo ma piccantissimo ema datshi.
Arriviamo finalmente nel distretto di Bumthang, il punto più estremo che raggiungeremo nel nostro viaggio. Quasi nessuno parla inglese e pare di essere ad anni luce dalla capitale Thimpu.

C’è un piccolo gioiello qui: il Wangdicholing Dzong, costruito a metà 800 e oggi in fase di restauro. “Possiamo visitarlo ugualmente. Solo state attenti” – dice il solito Sonam e, lo sai già, ridacchia tra sè. Non sono convinta infatti che si tratti di un edificio esattamente agibile: eppure, sono proprio quei balconi pericolanti, quelle finestre dagli intagli sbiaditi, quelle stanze vuote, quelle travi quasi cascanti, quei muri scrostati e puntellati che mi hanno semplicemente incantata. Il fatto che non sia stato ancora rimesso a nuovo, trasmette perfettamente l’idea di un passato ancora vivo e, da quella porta socchiusa là in fondo, speri di intravedere una principessa dagli occhi a mandorla.
E poi il suo colore: quello di Wangdicholing è l’unico dzong indaco, un indaco particolarmente intenso, che veniva prodotto secoli fa e che oggi si sta cercando di riprodurre per restaurare la fortezza così com’era all’origine. Un luogo fantastico insomma, in tutti i sensi.

Domani, però, ci aspetta il motivo per cui ci siamo spinti fin qui: finalmente avremo l’onore di assistere a uno tsechu.

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2 Comments

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  1. says: Renata

    Bello! Interessante! Affascinante! Hai girato il mondo e ce lo illustri alla grande con parole e foto. Grazie.
    Domanda, se vuoi rispondere, beninteso: dove non sei ancora stata ma ti piacerebbe tanto andare?