Vale la pena visitare il Lago Titicaca?

Titicaca isole galleggianti
Doveva essere uno degli highlight del viaggio e, invece, è stata l’unica tappa di cui, col senno di poi, avrei proprio fatto a meno.

Il Titicaca. Il lago navigabile più alto del mondo (ben 3800m!), l’aria rarefatta, le acque limpide. Il blu, il profilo della Cordillera sullo sfondo. Le isole galleggianti e una civiltà antichissima. I portali in pietra, i templi dedicati alla Pacha Mama e al Pacha Tata. Comunità di una manciata di persone, vestite di stoffe vivaci e di pon pon. Doveva essere uno degli highlight del viaggio il Titicaca e, invece, è stata l’unica tappa che, col senno di poi, avrei fatto a meno di inserire nell’itinerario.

E qui ti spiego perché.

Al Titicaca ci siamo fermati 2 giorni: il primo, abbiamo visitato le isole galleggianti degli Uros e Amantani, dove abbiamo pernottato in homestay presso una famiglia del posto. Il secondo, ci siamo spostati a Taquile, per poi rientrare alla cittadina di Puno.

La farsa degli Uros
Conosciuti anche come il Popolo dell’Acqua, gli Uros sono una razza indigena arrivata sulle sponde del Titicaca oltre 3500 anni fa. Per sfuggire alle persecuzioni inca, hanno avuto la neanche troppo bizzarra idea di edificare piattaforme – le islas flontates – su cui vivere, che, all’occorrenza, potevano essere spostate al largo, al pari di una nave. Elemento imprescindibile intorno a cui ruota la loro civiltà è la totora, il giunco utilizzato per costruire la base galleggiante delle isole, ma anche capanne, utensili e barche. E che è pure commestibile.

Oggi, a circa 1h di navigazione da Puno, si trova un arcipelago di alcune decine di islas, ciascuna abitata da una famiglia allargata, una piccola società, visitabile prendendo parte a un tour di gruppo.

Kamisaraki, Kamisaraki” – è così che ti salutano gli Uros quando arrivi. “Uariki”, devi rispondere. Questo però è il dialetto aymara; la loro lingua, quella originale, si è persa nella notte dei tempi. Lo sbarco è decisamente singolare: ricordo molto bene la sensazione provata nel poggiare il piede sul pavimento di totora. Affondi un po’, come se camminassi su di un cuscino, o su di un materasso gonfiabile. Morbido, ma con un fondo solido.

L’isola è grande più o meno come una piazza di paese; subito veniamo condotti davanti a un compatto blocco di canne. Quello che – stando a quanto ci traduce la guida – è ‘il sindaco’ della piccola comunità, ci informa che si tratta di uno dei tanti blocchi di totora che costituiscono il suolo dell’isola e che possono arrivare a misurare fino a tre metri di spessore. Come si svolge una vita galleggiante? Si pesca, si caccia (nelle mani dell’oratore si materializza un volatile stecchito simile a un ibis), si va a Puno periodicamente a comprare papas e altre verdure e si preparano manufatti da vendere al mercato che, ci tiene a precisare, si terrà tra poco. Per ‘enamorarse’, siccome sull’isola non c’è privacy, le giovani coppie devono prendere la barca e andare al largo – continua il sindaco strizzando l’occhio.

Quelle barche! Sembrano uscite da un libro di fiabe, con l’effigie di un non ben definito animale a prua, dalla bocca aperta e i denti appuntiti. Proprio belle a vedersi. Entriamo poi in una capanna. Una sola stanza, dove c’è una piccola TV, 3-4 bambini sulla coperta stesa a terra e, fuori, un minuscolo pannello solare. Voglio indossare l’abito tradizionale? Gonnone, gilet, cappello: non manca nulla! No, grazie, sto bene così. Infine, il mercado: quattro cianfrusaglie disposte davanti a ciascuna casa, ahimè bruttine e di qualità molto inferiore a quelle di un qualunque mercato turistico peruviano. Prendiamo ugualmente una cosina, per ringraziare dell’ospitalità. La cordialità sparisce immediatamente nel momento in cui non acquistiamo beni di maggior valore.

E ora che si fa? Per la prossima mezz’ora almeno, le opzioni sono due: un giro sull’imbarcazione di totora oppure restare lì, nell’imbarazzo di quel ‘mercato’. Se non vuoi comprare niente, ti guardi intorno. E noti che le donne, sotto gli abiti mal allacciati, ne portano altri, normalissimi. Che nulla hanno a che fare con le vivaci gonne rosa, a questo punto unicamente indossate a scopo turistico.

Optiamo per il giro in barca. Una bimba viene esortata a cantare filastrocche in più lingue, gridando forte l’idioma prima di ogni esibizione. Ahora Inglés! e attacca con Mary had a little lamb. Ahora francés! e giù con Sur le pont d’Avignon. Ahora Japones! …? Per noi italiani, Vamos a la playa dei Righeira.

I turisti presenti si scambiano sorrisi impacciati. Stiamo tutti pensando la stessa cosa, finchè qualcuno non esprime il proprio dubbio ad alta voce: davvero vivono qui queste persone? O forse vivono a Puno e vengono qui al mattino, apposta per allestire questo spettacolino di terz’ordine? Guarda caso, l’indomani, passando davanti alle islas flotantes a pomeriggio inoltrato, le vedremo completamente deserte. Possibile che tutti, ma proprio tutti, siano dentro casa?

E le barche poi? Come leggerò una volta rientrata, gli Uros non hanno lasciato dietro di sè alcuna testimonianza, impossibile sapere che tipo di imbarcazioni usassero. Quelle odierne, così fotogeniche, sono state create a tavolino, sono una pittoresca invenzione del turismo. Niente di autentico, nessun valore culturale, antropologico. Niente di niente.

Perché queste parodie così tristi allora? Anzi, chiamiamole col loro nome: perché queste pagliacciate? Un blog in lingua spagnola diceva che le isole degli Uros sarebbero una tappa piacevole se… non ci fossero “gli uros”, che ormai scrivo tra virgolette. Certo, perché l’unica cosa significativa di questa visita è vedere l’isola in sè, poggiarvi il piede. Il resto? Una messa in scena con pessimi attori. Una totale perdita di tempo.

Per dovere di cronaca, va detto che pare ci siano famiglie che vivono effettivamente sulle islas flotantes, ma rifiutano di lavorare con i tour operator. Non li si può biasimare.

Amantani e Taquile
Amantani, un’isola che vive di agricoltura e allevamento, promettere un’esperienza più autentica. Molto distante dall’arcipelago galleggiante, la raggiungiamo comunque in tempo utile per fare un’escursione: una camminata di un paio d’ore su per i terreni terrazzati, che ci porterà a oltre 4000m d’altezza, ai resti dell’antico tempio della Pacha Mama, la Madre Terra. E resti è proprio la parola giusta, dato che oggi tutto ciò che rimane sono alcune pietre disposte in cerchio. Diverso sembra essere il tempio dedicato al Pacha Tata, il Padre Terra: passandoci accanto, pare meglio conservato del suo corrispettivo femminile. Se non altro, la vista da qui è bellissima: mentre il sole va giù, il cielo, il lago, la sagoma delle montagne – laggiù c’è la Bolivia! – cambiano colore.

Un mate di muña per riscaldarci e poi ci avviamo presso la famiglia che ci ospiterà per la notte. A casa, ci attende un pasto blando ma genuino – zuppa di quinoa, riso e tuberi (anche l’ulluco, che ritroveremo qui). Dopocena, ci dice la guida, ci sarà una festa organizzata per i turisti, con musica, danze e possibilità di vestire gli abiti locali (ancora?!?). Decliniamo. Anche perchè, oltre a non amare questo genere di cose, siamo piuttosto stanchi: la nostra camera è piccina, ha le pareti turchesi, una tendina alla finestra dalla fantasia variopinta, un tavolino con una sedia. Il bagno è fuori, in cortile.

Un’esperienza semplice questa dell’homestay, senza infamia ma anche senza lode. Di sicuro non mi ha regalato le epifanie che si leggono sul web di certi vacanzieri che ‘in mezzo alla gente umile’ hanno ‘riscoperto i veri valori della vita’ perchè ‘non hanno niente eppure sono felici’ (tre citazioni reali). Ora, ci sono poche frasi che mi fanno imbestialire quanto questa. Lo stupido cliché del povero-ma-felice, vivendo in Africa, l’ho sentito mille volte (per lo più da chi in Africa non ci è stato mai o ha fatto al massimo 4 giorni al Parco Kruger). Ma che ne sa la gente? Che ne sa il turista della felicità di una famiglia – figuriamoci di un’isola intera, di un popolo intero – dopo che li ha visti per qualche ora?!? Che ne sa?

Insomma, dopo questa esperienza mistica per alcuni, l’indomani, è la volta di Taquile, che raggiungiamo dopo quelle che sembrano essere infinite ore di navigazione. Una nuova escursione, una nuova camminata a 4000m e un nuovo tempio, molto simile a quello di Amantani. A pranzo, la guida passa in rassegna gli abiti tradizionali dell’isola: i taquileños sono abilissimi tessitori; le donne producono le stoffe, gli uomini lavorano a maglia. Ciascuna trama, colore, pon pon, persino il lato della testa su cui è inclinato il cappello sono sono indicativi della posizione sociale dell’individuo e del suo stato civile: sposato, single, in cerca di moglie. Una cosa che mi ha sorpresa: all’interno di alcuni indumenti, vengono talvolta intessuti, insieme alla lana, gli spessi capelli delle donne (!).
Dopo pranzo risaliamo in barca: passeranno ancora diverse ore prima di rimettere finalmente piede a Puno.

In sostanza, quindi, vale la pena visitare il Lago Titicaca?

Basandomi su quel che ho visto io, no. Perché gli Uros sono una triste buffonata, perché i lunghissimi tempi di trasferimento in barca non giustificano quel che poi effettivamente si vede a destinazione, perché non ho trovato né in Taquile né in Amantani quel quid che mi ha fatto dire, ‘fosse anche solo per questo ne è valsa la pena’.L’esperienza di homestay è stata poco significativa e non certo perché sono schizzinosa – mangio più o meno di tutto e dormo praticamente ovunque – ma perché il contatto con la gente del posto mi è parso forzato, finto. I templi inoltre sono stati una delusione, certo non mi aspettavo nulla di paragonabile a Machu Picchu o a Tiwanaku ma qualcosa in più sì. Come dicevo all’inizio del post, col senno di poi avrei saltato a piè pari questa tappa, inserendo magari un giorno in più a Cusco e uno a La Paz.

Sono sempre onesta: inutile dire che un posto mi è piaciuto se in realtà è tutto il contrario (vedi la Namibia che, escluse alcune tappe, è stato uno dei viaggi più noiosi mai fatti). Mi hanno detto che, lato Perù, le isole di Yuspique e Anapia sono migliori, così come, lato Bolivia, la Isla del Sol e la Isla de la Luna. Sarà. Ma se tornerò come spero in questo angolo di mondo, non credo ripasserò dal Titicaca. Il Perù è grande.

E tu cosa ne pensi? Quali posti ti hanno lasciato con l’amaro in bocca una volta visitati?

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2 Comments

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  1. says: Giulia

    Stessa identica delusione con le isole Uros. Ricordo ancora l’imbarazzo tangibile di fronte ai gruppi di donne che cantavano e ballavano Vamos a la Playa, una delle esperienze più tristi mai fatte in viaggio. Durante il mio viaggio in Perù ho avuto un altro paio di volte la stessa sensazione di forzatura, di quadretti dipinti per il turista affinché sganciasse una mancia. Peccato. In ogni caso direi che al Titicaca ci tornerei, magari saltando le uros ma i paesaggi li ricordo meravigliosi!

    1. says: Cris

      E pensare che me l’avevano pure detto! A me ancor più dei Righeira ha fatto impressione vedere i vestiti normali sotto gli altri. Cioè, proprio se ne fregano di allacciarli bene, di mascherarli. Che tristezza… questa cosa credo mi abbia guastato completamente l’esperienza al Titicaca…