Architettura e arte contemporanea alla Fondazione Prada di Milano

Nella Upside Down Mushroom Room, Fondazione Prada
Era un vecchio complesso industriale in disuso. Oggi è un contenitore di arte contemporanea dalle atmosfere allucinogene.

Quello di cui ti parlo oggi non è proprio un museo. E’ più un contenitore, uno spazio. Uno spazio per l’arte contemporanea. Nella Fondazione Prada trovi gabbie di vetro in cui perdono la vita mosche suicide, corridoi bui che portano a stanze allucinogene, soggiorni carbonizzati, Dalì dentro a un pendolo e “Pelo”.

Non ci hai capito niente, eh? Allora cominciamo dall’inizio.

Siamo a Milano, in zona Lodi e, all’inizio, c’era semplicemente una vecchia distilleria in disuso. La distilleria e lo snodo ferroviario di Trenord.

Poi è arrivata la sensibilità artistica di Miuccia Prada e il genio architettonico dello studio olandese di Rem Koolhaas a cui, nel 2015, ha fatto seguito la riqualificazione del sito. E l’ex complesso industriale si è trasformato in un centro dedicato all’arte e alla cultura contemporanea. Attualmente, anche grazie alla costruzione della torre Atlas nell’aprile 2018, conta un totale di dieci edifici su uno spazio di 19.000 m2 e ospita opere realizzate a partire dal 1960.


La Fondazione e le esposizioni temporanee
“Vecchio e nuovo, orizzontale e verticale, ampio e stretto, bianco e nero, aperto e chiuso: questi contrasti stabiliscono la varietà di opposizioni che descrive la natura della Fondazione”, così si legge sul sito ufficiale.

Arte e architettura sono legate a doppio filo, così come i concetti di conservazione e innovazione. Spazi lineari, puliti e giochi di specchi; una casa – la Haunted House – interamente rivestita di foglie d’oro e due aree adibite a mostre temporanee, denominate Podium e Cisterna. E’ proprio qui che sono esposte le installazioni dell’artista brasiliana Laura Lima: oniriche, potenti e un po’ sinistre.

La prima è Pendulum, che mette in scena un pendolo di Focault con una tela alla sua estremità, la riproduzione del Pescador al Sol di Salvador Dalí. Oscilla inesorabile davanti agli occhi dello spettatore, in una stanza nuda. La seconda è Bird, un gigantesco uccello nero rovinato al suolo, caduto da chissà quale cielo. Opere ipnotiche, che danno un senso di disagio, di irreparabile ma che tuttavia si sposano perfettamente con gli spazi freddi della Fondazione, per un effetto davvero alienante. Da vedere? Sì. Ma solo per gli amanti del genere, si capisce.

La Torre Atlas
9 piani per 60metri d’altezza e una terrazza da cui guardare la Madonnina da lontano. La Torre Atlas ospita mostre permanenti e, in linea con il resto del complesso, gioca con l’architettura oltre che con l’arte: a mano a mano che si sale, i soffitti delle stanze divengono sempre più alti e le installazioni più opprimenti.

Lasciata la borsa al guardaroba, la visita comincia al secondo piano, dove ci sono i Tulips di Jeff Koons, realizzati nell’arco di ben 9 anni. Cos’hanno di speciale? Che a vederli questi sette tulipani giganti sembrano sedute morbide, di quelle che ci puoi saltare e affondare dentro. In realtà sono di acciaio inossidabile.

Il terzo piano ci porta dritti agli anni Happy Days con tre Chevrolet Bel Air del 1955, panna e rosso. Sembrano enormi ma… queste erano le dimensioni di allora! C’è però un dettaglio enigmatico a caratterizzare la Bel Air Trilogy di Walter de Maria: tre pesanti barre d’acciaio inserite nell’abitacolo di ciascuna auto.

Al quarto piano, l’atmosfera cambia. Troviamo ad attenderci un tappeto di chiodi e una serie di mobili carbonizzati, in una installazione di Mona Hatoum chiamata Remains of the Days. Ossia, quel che resta di un tempo passato. L’effetto è molto disturbante, garantisco. Al quinto piano c’è Pelo, un enorme pouf – appunto – peloso, che dà su una vetrata dietro alla quale c’è tutta Milano. Peccato non potercisi sedere su. Anzi, dormire, viste le dimensioni.

Continuiamo a salire: al sesto piano troviamo il ristorante (che non ho avuto il piacere di sperimentare) e al settimo la toilette (questa sì, ed è un’esperienza anch’essa, provare per credere).

Arriviamo all’ottavo. Appesi alle pareti ci sono quadri di William N. Coopley risalenti ai primi anni 70: raccontano scene di sesso molto esplicito. Al centro della sala, grandi gabbie di vetro. In una piove e c’è un ombrello aperto: ripara due anatre. In un’altra, c’è la vita e la morte. La teca di Damien Hirst è piena di mosche che si affollano su zollette di zucchero, girano e rigirano prima di cadere stecchite sul fondo della gabbia, coperto da una tela ad olio. Una tetra metafora? Chissà. Nella terza teca, un robot dalle sembianze umane analizza vetrini al microscopio.

All’ultimo piano c’è una porta, dietro ad essa un corridoio buio. Ma buio davvero. Senza tenerti al corrimano non puoi andare avanti. Procedi per qualche minuto, ora avanzando, ora svoltando angoli, totalmente cieco, affidandoti solo al tatto. E poi, la classica luce in fondo al tunnel, una luce rosa. Stai per entrare nella Upside Down Mushroom Room di Carsten Höller, dove gigantesche amanite falloidi pendono dal soffitto, a testa in giù. Alcune sono sbocconcellate, qualcuno ha dato loro un morso. Inevitabile il riferimento ad Alice che, dopo aver ceduto a quell’ambiguo invito Eat me!, precipita nel buio per atterrare in un mondo nuovo, meraviglioso.

Varchi la soglia che ti conduce fuori da questa stanza e quasi speri che lì dietro ce sia un’altra simile o, per lo meno, una bottiglietta con scritto Drink me!. E invece sei alla fine della tua visita: non ti resta che salire sulla terrazza, prima di tornare alla realtà, a Milano.

Cosa ne pensi? Ti piace l’arte contemporanea?

La Fondazione Prada si trova in Largo Isarco 2, circa 15 minuti a piedi dalla fermata Lodi TIBB della metro. 

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