Un attimo di silenzio per chi va quindici giorni all’estero e cerca ristoranti italiani.
Fatto? Bene. Allora possiamo cominciare. Sono un’appassionata di food. Proprio in generale, dico. Nel senso che trovo interessante persino il cibo servito in aereo (ehi, ho detto interessante, mica buono). Non sopporto il cucinare per la sopravvivenza – pasta in bianco e simili – ma ciò non significa che io ricerchi piatti elaborati, tutt’altro: prediligo quelli con pochi ingredienti ma di qualità, ben strutturati. Pensati.
Credo che non solo la cucina ma anche il rapporto che si ha con essa e il tempo che le si dedica la dicano lunga su di una famiglia e, per esteso, su di un’intera nazione. Per questo quando sono all’estero mi piace provare le specialità locali, conoscere la loro storia, come si preparano, come si accompagnano. Del resto cosa sarebbe l’India senza le spezie, il Marocco senza la tajine, l’Italia senza la pizza. Persino la Germania senza bratwurst! Perchè ogni viaggio, oltre che su strada, è anche e sempre un viaggio nel gusto.
“Zampe di rana, occhi di serpente, quattro pipistrelli e un ragno senza un dente”
Adeguarsi ai gusti locali, significa talvolta scontrarsi con palati molto diversi dal nostro. Palati abituati al piccante – prova un ema datshi in Bhutan e poi dimmi – , a sapori forti, ad alimenti che mai ci aspetteremmo di trovare in tavola. La cosa più disgustosa che ho buttato giù credo sia stato l’hákarl (foto sotto), il puzzolentissimo squalo fermentato in fossa per un periodo da 3 a 6 mesi, assaggiato in Islanda più per sfida che per gola (ovviamente). Te lo servono col brennivín, una specie di acquavite che ti disinfetta, ti toglie il sapore dalla bocca e – aggiungo io – ti stordisce in modo da dimenticare ciò che hai appena ingoiato. Di cosa sa l’hákarl? Per me, di ammoniaca.
Qui a Luanda, Angola, al supermercato vendono catatos, larve essiccate (foto sotto) che contengono, in proporzione, più ferro e proteine del manzo. Le trovi tra la farina e i legumi secchi se vuoi provarle. In Vietnam ho visto ranocchie e uccelletti allo spiedo; non li ho assaggiati: mi sono limitata alla frittatina di lombrichi d’acqua (chả rươi). Arrivata in Cambogia poi, non ho detto di no a bruchi e grilli fritti. Only the brave! – e giù. Nemmeno male: meglio il crunch del grillo rispetto al bruco che, quando lo mordi, ti scoppia in bocca.
Comunque, senza andare troppo lontano, anche in Italia ci sono cibi per me decisamente off-limits: vogliamo parlare del cazzomarro lucano o della vastedde ca‘ meusa palermitana?
Che poi, diciamo la verità, quel che blocca il commensale, più del gusto (che non conosce), è l’aspetto. Prendiamo gli orrendi ma prelibati percebes portoghesi, ad esempio. Oppure il cuy, il porcellino d’India, peloso e morbidoso che in Perù finisce infilzato sullo spiedo, grigliato e servito su di un vassoio con dentini, zampine e contorno di insalata. Che da animale tenerino diventa praticamente un grosso ratto nel piatto. Ecco, sotto questa veste non ce l’ho fatta a mangiarlo. Però, è una specialità locale e… così l’ho ordinato in chicharron, dunque fritto, a pezzi. E, bhè, era buonissimo. Come un pollo ma molto più gustoso.
A proposito di animali strani, sempre in Perù ho assaggiato alpaca e lama, in Lapponia è stata la volta della renna, mentre qui in Africa, del kudu: una specie di grossa antilope saporitissima e che ho trovato sulle tavole di Sudafrica, Tanzania, Namibia e Botswana. Non ho nessuna pietà per le povere ma, purtroppo per loro, squisite moeche venete ma non mi azzarderei a provare animali tipo coccodrillo, elefante e tanto meno il serpente, sebbene mi siano state dette meraviglie in Congo. Evito inoltre determinate parti di animali, specialmente dopo aver fatto un giro nel mercato di San Pedro a Cusco dove trovi musi sui banconi e altre amenità per stomaci forti. Eccezione: la lingua del merluzzo. In Norvegia le chiamano torsketunger e, impanate e fritte, sono una prelibatezza delle isole Lofoten.
Degna di nota, la pizza con cammello affumicato scovata su di un menù in Australia. No, non l’ho ordinata.
Junk food mon amour
Il mio capitolo preferito. Quello delle schifezze. Perchè il junk food io lo amo, che ci posso fare. Comincio a roteare gli occhi quando sento discorsi tipo “e il fritto no perchè è veleno, e le carote solo crude che cotte sprigionano zuccheri, e il the solo in foglie che la bustina ti-fa-venire-il-cancro-l’ha-detto-Report”… Gente pesante ne abbiamo?!? Durante i miei anni in UK, ho sviluppato una certa dipendenza da biscotti Bourbon, Jaffa Cakes e Margarina (I can’t believe it’s not butter! cit.). Ricordo poi una vacanza quasi interamente a base di McDonald’s (ma ero giovane e dovevo pur risparmiare), dov’era? Forse in Spagna, o in Portogallo. E ricordo che c’era una promozione e che, per ogni cena, ti davano un paio di infradito (tornata in Italia potevo praticamente aprire un chiosco in spiaggia).
Ricordo barrette di Mars fritte (Australia), burritos lunghi come un avambraccio a colazione (a Whistler, Canada), cene interamente a base di soufflè (Parigi), patatine con maionese a gogo (probabilmente il motivo inconscio per cui amo Amsterdam), churros pucciati in tazzoni di cioccolato bollente a Madrid alle 2 di notte e piattoni di gurung bread, il dorato – e fritto – pane tibetano, in Nepal. A Taormina ho scoperto quanto è buona la granita con la panna – una roba che mai e poi mai avrei pensato – e poi c’è stato quell’episodio a Trastevere che, quando il cameriere ci ha chiesto se volevamo concludere con un dessert, noi – che dei dolci ce ne importa poco – abbiamo risposto che avremmo preferito un fritto alla romana se non aveva nulla in contrario. Ha fatto una grassa risata e ci ha portato un piatto di carciofi alla giudìa, baccalà e altre cosine buone e pastellate. Ma è il roadfood staunitense a occupare un posto speciale nel mio cuore: sono tornata dal viaggio lungo la Route66 con 2kg in più e un motto: “it ain’t food if it ain’t fried”.
E da bere? Sono fan delle soda fosforescenti, tipo la gialla Inca Kola peruviana dal sapore di bubble gum, e della birra (viva il Belgio e le sue degustazioni!). In quanto a super alcolici, ricordo con affetto (!) la collezione di gin angolani e la Birra Margarita (Page, AZ) che altro non è che un bicchierone di Margarita con una Coronita (bottiglietta di Corona) sapientemente sprofondata dentro. Cioè, son cose. Mica stiamo qui a grigliare verdure.
Drive through
E poi c’è il cibo in auto. Perchè l’on the road è la tipologia di viaggio che ci piace di più e, talvolta, guidiamo (cioè il marito guida, io no) anche 400km al giorno. Dunque, qualcosa da sgranocchiare ci va. In Bolivia ho ruminato foglie e foglie di coca, la Costa Azzurra non sarebbe stata la stessa senza le Pastiglie-Leone-Gusto-Spritz, e vogliamo parlare degli Oreo? (Double cream però, che gli altri non vale la pena).
Talvolta capita anche che io abbia un attacco salutista. Raramente eh, ma capita. Tipo che prima di partire per la Namibia mi sono comprata un paccone di bacche di Goji da smangiucchiare strada facendo. Ecco, MAI PIU’. Acide, amarognole. Uno schifo. Siamo passati ai biscotti, quelli con le gocce di cioccolato dentro. E soprattutto alla Biltong, carne essiccata e speziata che avevamo già conosciuto in Sudafrica. Ricorda un po’ la nostra mocetta. In Svezia – sarà stato il freddo – abbiamo optato per le chokladbollar, grosse palle di panna rivestite di cioccolato.
E poi arriva lui, il fine dining
Ogni tanto invece faccio la persona fine. Metto i tacchi e vado da Nobu a Milano, a mangiare ostriche in un Oyster Bar, in un ristorante stellato o della categoria ‘The World’s 50 best restaurants‘. E mi do al cosiddetto fine dining: tra gli altri, sono stata da Gordon Ramsay e Joël Robuchon, ma in Italia amo in modo particolare il Palazzo Petrucci* di Lino Scarallo a Napoli, il Vespasia* di Fabio Cappiello a Norcia e, nel mio Piemonte, Piazza Duomo*** di Enrico Crippa (foto sotto), eletto nel 2021 diciottesimo ristorante al mondo. Ho provato anche il settimo in classifica, il Maido a Lima, con la cucina Nikkei firmata da Mitsuharu Tsumura, che mescola tradizioni peruviane e giapponesi.
Insomma, proprio come nel caso degli hotel, mi adatto più a meno a tutto. Ho un unico nemico giurato, un alimento che detesto sopra ogni cosa: il parmigiano. Lo tollero solo se gratinato o fuso (in piccole dosi) insieme ad altri ingredienti, giusto per insaporire. Ma prova a portarmi una pasta al sugo con il parmigiano fresco grattugiato su. Mi sa che è la volta buona che provo i catatos.
E tu? Raccontami le tue esperienze più o meno ghiotte qui di seguito!
Ma il kudu è buonissimo!!!
Cioè, mi spiace tanto per i kudu, ma sono strafavolosi da mangiare!!!
Anche io adoro il junk food. Hanno un po’ rotto le palle con la cucina bio, a km zero, salutista, vegana, crudariana ma solo nei giorni pari…..
Datemi del fritto e un birrozza…. probabilmente morirò prima, ma almeno avrò vissuto felicemente! 😉
Elena
Ooooh, brava! Chi non ama il cibo è una persona triste!!!
Ti adoro! Voglio partire con te!
Ma sai quanta gente invece in viaggio cerca a tutti i costi il ristorante pseudo-italiano o mangia solo da McDonald’s perché altrimenti “si mangia male”? Purtroppo credo a moltissima gente, spesso anche a chi viaggia molto, manchi una dote fondamentale: la curiosità. Come si fa a non essere curiosi di provare il pesce fermentato, o la carne di renna essiccata? Poi non è che ci deve piacere per forza.
Io invece ho un unico nemico: gli insetti 😉
Buona giornata 😍
hahhahah ci troveremmo bene in viaggio insieme! Anch’io credo si tratti di mancanza di curiosità, spesso accompagnata da manie pseudo salutiste portate avanti più per moda che per necessità.
Il mio prossimo assaggio sarà il Durian – sai quel frutto puzzolentissimo che in Asia vietano addirittura in alcuni luoghi pubblici – l’ho trovato in un mercato cinese qui a Luanda e la prossima volta lo compro! 😉