Difficile parlare del 9/11 Memorial. Non è solo un museo, né un semplice memoriale: è un pezzo di storia contemporanea, un monito per quella futura.
Per raccontartelo potrei usare le parole di Robert De Niro – voce narrante dell’audioguida ufficiale – che, quella mattina, ha assistito in prima persona al crollo delle Twin Towers, dal suo appartamento di TriBeCa.
E’ la sua voce che ti conduce dentro Ground Zero, nel seminterrato, dove c’erano le fondamenta delle torri. Dove le fiamme hanno arso tutto, o quasi: il muro di contenimento è ancora lì, incredibilmente resistito al collasso e diventato per questo simbolo della resilienza americana. Proprio di fronte ad esso si erge l’ultima colonna, l’ultima ad essere rimossa dalle macerie – 8 mesi dopo lo schianto – e riportata alla luce con il lustro riservato agli eroi: avvolta in un drappo a stelle e strisce, scortata dal picchetto d’onore.
Poco più in là, le scale dei sopravvissuti, 38 scalini di emergenza: in cima la morte, in fondo la vita. Non è difficile immaginarseli coperti di polvere, di detriti. E come non fermarsi a riflettere davanti all’immenso Memorial Wall, con le piastrelle dalle mille sfumature di blu, a ricreare il colore del cielo di quel giorno. Dietro al muro, il remains depository, dove giacciono i resti mai identificati delle vittime. A poco a poco le parole vengono meno, tanto che si prendono in prestito quelle di Virgilio, travisandone – secondo alcuni – il significato. Nessun giorno vi cancellerà dalla memoria del tempo. Ogni lettera di questa frase, che spicca a caratteri cubitali sull’azzurro della parete, è stata forgiata con l’acciaio rinvenuto al World Trade Center.
Poi, anche le parole finiscono. Succede quando entri nell’area commemorativa. Un labirinto di volti: la ragazza bionda con l’uniforme del college, il signore abbracciato al suo cane, il poliziotto di colore, la mamma con la sua bimba, la studentessa dagli occhi a mandorla, il ragazzo col cappello degli New York Yankees, lo sposo novello, il vigile del fuoco, l’anziana col filo di perle, il business man in giacca e cravatta. Un mosaico di visi – molti sorridono – di vite ordinarie. 2974 vite uguali a tantissime altre, con l’unica, sostanziale differenza di essere state spezzate dalla follia estremista.
Ed è qui – più che di fronte alle macerie esposte, all’acciaio arrugginito e accartocciato, alle camionette dei vigili del fuoco sventrate – che l’evidenza, la gravità dei fatti, ti colpisce forte. Perché tutte quelle facce finiscono per sfumare in unico volto, quello degli Stati Uniti, dell’americano medio o, per estensione, dell’uomo comune. Esattamente come me, come te. Per quanto siano state dolorose, non è facile rapportarsi alle tragedie del passato. A quella delle Twin Towers – almeno per me che, nell’arco di un anno, prendo parecchi aerei e metto piede in due, tre continenti diversi – sì.
Due cose mi hanno sempre stupito dell’undici settembre. La prima è che tantissime persone ricordino perfettamente cosa stavano facendo in quel preciso momento. Io ero a casa, al tavolo della cucina. La sera sarei uscita per la festa patronale del mio paese. C’era ancora mio papà, era sul divano, e mio fratello è arrivato di corsa: ‘Hai visto cos’è successo, accendi la tele’ – dice tutto d’un fiato. E poi il fumo, il crollo. Era il 2001, ma pare ieri. Perché un ricordo così nitido? Forse perchè ciascuno di noi, inconsciamente, si è reso conto che quell’evento che avrebbe cambiato il corso della storia? Che l’America, che l’intoccabile Occidente era stato messo in ginocchio?
La seconda cosa è la razionalità di tante last calls, i messaggi vocali lasciati dalle vittime ai loro cari poco prima di morire. C’è una sala, nel 9/11 Memorial, in cui si possono ascoltare le ultime parole di chi quel giorno era su uno dei due Boeing o dentro il World Trade Center. Siamo stati dirottati. Se le cose non dovessero andare bene sappi che ti amo. Oppure: C’è stata un’esplosione qui vicino, ma io sto bene. Se dovesse succedere qualcosa, voglio che tu vada avanti con la tua vita, ti amo. Spero di chiamarti più tardi. E ancora: Hey baby, ascolta. Sono su di un aereo che è stato dirottato. Volevo dirti che ti amo. Di’ ai bambini che gli voglio bene. Mi spiace, baby.
Quel che strazia, che ti fa uscire in lacrime da quella sala, è la compostezza di questi messaggi. Chi cerca di calmare chi è a casa, chi addirittura chiede scusa. Mentre tutto cade a pezzi, mentre l’aereo sta per schiantarsi. La mente lucida, non annebbiata dal panico. La voce rotta, ma solo un po’. Le parole ben scandite, ferme. Il desiderio, la scelta consapevole di lasciare dietro di sè un messaggio d’amore, non un singhiozzo. Forse, si diventa tutti un po’ eroi, in questi casi.
Appena fuori dal Memorial ci sono due vasche gigantesche. Sorgono dove si trovavano le vecchie torri, quella Nord e quella Sud. Sono simbolo di un vuoto enorme, della voragine lasciata aperta nei cuori di New York e del mondo. Ma mi piace pensare siano anche simbolo di vita, di rinascita. E’ questo che rappresenta l’acqua. Sui bordi delle fontane, i nomi delle vittime e, a volte, un fiore. Cartelli di bronzo invitano i passanti a posare le proprie mani su quei nomi, anche solo un attimo. Per mostrare loro rispetto, partecipazione. E, soprattutto, per non dimenticare.
#NeverForget.
Gran bel post. Anch’io ricordo precisamente dove, come e con chi fossi quel giorno del 2001. Al Memoriale lì a NY però non sono entrata, forse perché poco prima avevo vissuto in prima persona l’esperienza di inviare un ultimo messaggio d’amore a qualcuno pensando che sarei morta, quindi non me la sono sentita. Però sono cose che tutti dovrebbero sapere, per far sì che non accada di nuovo.
Oddio, allora hai fatto bene a non entrare! Però appena te la sentirai vacci: al di là della brutalità dei fatti, è un luogo che fa riflettere molto, da vedere. Un abbraccio!
Ciao Cris, ricordo che quando ci siamo andati, un anno fa, ne siamo usciti distrutti… siamo andati a prendere un the caldo e abbiamo cambiato i nostri piani per la serata, eravamo veramente colpiti.
Credo che anch’io non dimenticherò mai la telefonata dell’hostess al marito, per salutarlo mentre il suo aereo andava a schiantarsi… iniziava con un tenero “Honey….” proseguendo poi con grande calma e dolcezza, ma con il pianto nel cuore: ci ha lasciati senza parole.
Il memoriale/museo è molto interessante ma inevitabilmente molto forte, si esce veramente amareggiati.
Anche le due vasche esterne sono di grande impatto emotivo, e leggere tutti quei nomi accompagnati dallo scroscio dell’acqua rimane impresso per sempre, e fa molto riflettere sull’uomo e le sue grandi contraddizioni.
Ciao Silvia,
la ricordo bene la testimonianza di quella hostess! Questo museo ti fa compiere un percorso emotivo pazzesco; non sono mai uscita in lacrime da nessun posto, qui è stato impossibile trattenerle.