Il fascino triste di Tucumcari, New Mexico

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Un VW van a Tucumcari, NM
Saranno i suoi neon vintage, il Blue Swallow Motel, i murales o semplicemente il cielo del New Mexico. Ma Tucumcari è la tappa più bella di tutta la Route66.

“If you travel Route 66, sooner or later you’ll spend the night in Tucumcari”. Non ricordo chi l’ha detto o dove l’ho letto, ma non importa: è verissimo. Perché Tucumcari è tra le tappe più rappresentative dell’intero percorso e, mi azzardo a dire, la più bella. Più di ogni altra.

Un nome particolare, legato a leggende che scomodano talvolta gli Apache e altre i Comanche, un nome condiviso con l’omonima, piccola mesa davanti a cui sorse a inizio ‘900, vivace centro abitato che prosperava all’ombra della ferrovia che passava proprio di lì. Ma i cavalli – da strigliare e di ferro – lasceranno ben presto il posto alle macchine. Siamo ormai a metà del secolo e la costruzione della US 66 sancisce la popolarità di Tucumcari, rendendola una delle città più vibranti dell’intera Strada Madre, ricca com’era di motel, diner, trading post e tante tante stazioni di benzina, pronte ad alimentare un flusso di circa 8000 automobili al giorno (!).

Ma se la storia di Tucumcari è unica, il suo destino è invece comune a tutte le cittadine nate a bordo sixty-six: con l’avvento dell’Interstate, anche le sue luci poco a poco si spengono, aprendo la strada al declino, all’abbandono.

Eppure.

Eppure, ancora oggi, Tucumcari riesce a conservare un fascino particolare, andato inesorabilmente perduto altrove. A Tucumcari, ora cittadina semifantasma, il mito della Route 66 e, per esteso, il mito del viaggio, è ancora intatto, struggente e palpabile.

Basta camminare lungo la strada principale, quella che la taglia a metà: ci sono tutti i clichè dell’America anni ’50 e il bello è che non sembrano affatto clichè. I garage e le officine meccaniche ormai in disuso, i murales scrostati con la faccia di James Dean e di Elvis, i motel dai neon luminosi, le laundromat con la fila di lavasciuga: tutto è esattamente dov’era e dove è giusto che sia. Clint Eastwood was here – grida orgoglioso un banner appeso alla parete di un motel e non importa se – lo si legge in piccolo – è successo nel 1959.

A proposito di motel, arriviamo al nostro: il Blue Swallow. Inaugurato nel 1939 e rimodernato più volte, è forse il più noto di tutta la Route 66 e dormirci è un must, anche se riuscire nell’impresa potrebbe non essere così facile. Bisogna prenotare molto per tempo: le stanze sono appena una quindicina e dunque, soprattutto in alta stagione, vale la pena muoversi con addirittura un anno di anticipo. Il Blue Swallow è un’icona del vintage: un paio di auto d’epoca fanno bella mostra di sé all’entrata e, se cerchi in cortile, potrai trovare un cartello piccolino, giallo, con su una lepre e un numero: 422. Sono le miglia che mancano al famosissimo Here it is!, storico trading post che presto incontreremo in Arizona. Ogni camera del motel ha accanto il proprio garage e l’interno di ciascuno di essi è dipinto con soggetti a tema 66: dalle macchine di Cars al van giallo di Bob Waldmire, a noi – camera 12 – è capitato quello dedicato ai motociclisti del film Easy Rider!

Manco a dirlo, al Blue Swallow sentirai tanto parlare di Route 66: gli ospiti non alloggiano qui per caso. Amano ascoltare le storie legate al motel raccontate direttamente dai proprietari, la signora Nancy e il marito, e scambiare informazioni e consigli con altri viaggiatori. Il Blue Swallow è per molti di loro un punto d’incontro, un luogo per ritrovarsi e riconoscersi dopo aver vissuto insieme altre tappe della Strada Madre. Proprio qui ci siamo nuovamente imbattuti in un fotografo tedesco conosciuto al MidPoint Cafè di Adrian, TX e abbiamo incontrato un attempato americano che incroceremo ancora tra qualche giorno, sempre in New Mexico. Di lui te ne devo proprio parlare. Hai presente quelle rappresentazioni di Babbo Natale in vacanza, con tanto di panzone, barba bianca, occhiali da sole e camicia hawaiiana? Ecco, era lui. Sono convinta fosse Babbo Natale in disguise. Il tipico americano dell’immaginario collettivo: chiacchierone al limite del logorroico, super cortese, in viaggio on the road con la moglie che i figli ormai sono già grandi e i nipoti pure. Ho sempre avuto un debole per le coppie in età che ancora inforcano la strada e vanno per il solo gusto di andare, per cui lo ascolto volentieri.

Come previsto, attacca una pezza notevole e ci notifica un appuntamento a sua detta imperdibile: sabato mattina, a Gallup, una rug auction. Ossia un’asta a cui verranno messi in vendita tappeti tessuti dai nativi americani. Gasatissimo, mi spiega per filo e per segno come funziona l’asta, come riconoscere i tappeti migliori etc. Fatalità, a Gallup arriveremo di sabato anche noi, ma a fine giornata – gli dico. Scopro così che alloggeremo nello stesso hotel, El Rancho, altro alloggio storico lungo la Mother Road. ‘Blue Swallow, El Rancho… hey, you’re doing it right!’– fa. Grazie (sapessi il lavoro che c’è dietro)! Lo ritroveremo infatti dopo qualche giorno, quando, una nuova camicia hawaiana indosso, mi racconterà dei suoi acquisti e di come un amico gli ha fregato un gran bel tappeto da sotto il naso.

Cala il sole: sta per cominciare uno spettacolo che si ripete ogni sera, ogni giorno dell’anno, il Tucumcari tonite. Al tramonto e per tutta la notte, Tucumcari si accende di insegne vintage bellissime, che regalano uno show d’altri tempi. Tra le tante, la rondine azzurra del Blue Swallow, il Cammello del Motel Safari, la tenda indiana del Tepee Curios, il grosso manzo di Del’s Restaurant e il sombrero del ristorante messicano La Cita. Basta passeggiare lungo la main road per vederle, una dopo l’altra. Il mio consiglio è quello di fotografarle al tramonto: gusto personale, ma i neon che brillano con le ultime luci del giorno mi sembrano molto più belli di quelli immersi nel buio più totale.

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Il giorno dopo, prima di lasciare la città, facciamo colazione da Kix On 66, un tipico diner americano dove ci servono pancake da urlo (per me) e un burrito king size (per mio marito. Che assaggio anch’io, figurati). E tanto tanto caffè lungo, che a me piace da matti e Nespresso lèvate. Seduto al bancone, vicino a una bottiglietta di ketchup presente h24, c’è un signore con la camicia a quadrettoni e mi fa tanto America anche lui.

Non abbiamo fretta di andarcene, così girovaghiamo ancora un po’. Come tante altre città disseminate lungo la Route 66 (come Cuba in Missouri o Pontiac in Illinois) anche Tucumcari vanta un’ampia serie di murales – quelli vecchio stile, non la street art di oggi – che illustrano la storia del New Mexico e della strada più famosa del mondo. Qui ce ne sono più o meno una quarantina: recupera una mappa e cercali!


Lasciarsi Tucumcari alle spalle è difficile, anche se la nostra prossima meta è speciale, bellissima: Santa Fe. Uscendo dalla città passiamo davanti a una vecchia gas station Magnolia che ripete gli slogan della Mother Road e a una serie di insegne malandate, che nessuno si è preso la briga di custodire. Una freccia un tempo sfavillante oggi punta verso un motel che non c’è più, mentre un’altra racconta i sapori piccanti di un ristorante messicano di cui non resta che una baracca d’assi. Lì vicino, un pick up ossidato e un’altra insegna ancora: giace riversa a terra, enorme e impotente come la carcassa di un elefante lasciato a marcire.

Ha un fascino triste, Tucumcari. Incarna il mito di un passato glorioso, un passato che vorremmo non morisse mai. Eppure, anche qui, tempo e ruggine stanno portando avanti il loro lavorio lento e costante, divorandosi gli edifici, scrostando i murales e, soprattutto, spingendo le nuove generazioni ad abbandonare quei luoghi più o meno sperduti nel nulla a favore di un’America più moderna, chiassosa. Viva. Viene da chiedersi come sarà Tucumcari tra dieci, vent’anni e com’era dieci, vent’anni fa. Ma in fondo è meglio non farsi troppe domande: è il ricordo del qui e ora che porterò con me.

 

 

Se vuoi saperne di più sulla Route66, trovi tutti gli articoli a questo link.

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