Napule è mille culure. Per davvero.

Napule è tutto nu suonno e 'a sape tutt' 'o munno ma nun sanno 'a verità...

Per Napoli, ci sono passata più di una volta. Non mi ero mai fermata, però: la destinazione finale era sempre un’altra, Amalfi, Positano, Pompei, Capri (è soprattutto colpa di Capri, come sai).

A settembre ho detto basta. Ci sono venuta apposta.

Ho preso alloggio in un bel relais che dà sulla Pignasecca, una via scelta non a caso, dato che è la strada del cibo. Chiassosa e vociante, la Pignasecca è la pancia di Napoli. Una pancia gonfia di pizze, pizze a portafoglio, arancini, montanare, panuozzi, frittatine di pasta, pasta cresciuta. Ma anche di pesce, salsicce, pane, frutta, ceppi di scarola. E persino di quel cibo da strada per me immangiabile, O’ per e o’ muss.

Poco più in là, l’intrico dei Quartieri Spagnoli. Che a dispetto del nome, più napoletani di così si muore. I bassi, le edicole votive, i panni stesi (eccoli!), i motorini, le vespe su cui si va anche in tre, i vicarielli, Maradona e Nennella, il murales imbrattato della Tarantina, le merci pezzotte, gli espedienti. E i gradini, tanti.

Napoli città di scale: lo si vede subito. E io – in città, non nei palazzi – le scale le amo. Ne imbocchiamo una a caso e, altrettanto casualmente, arriviamo al più bello dei panorami, più di quelli che ci aspettano nei prossimi giorni. Lassù, da Vittorio Emanuele – racchiuso in una fetta azzurra, libero eppure in qualche modo indissolubilmente incatenato a quel caos che è Napoli – svetta o’ Vesuvio. Terribile, volubile, idolatrato: un totem, lo definisce Malaparte, in quel libro tanto crudo quanto meraviglioso che è La Pelle.

Respiro il mare solo verso sera, scendendo ai castelli e poi a Caracciolo: Ovo e Maschio Angioino si innalzano dorati mentre le luci scendono.

Ma quante anime è Napoli? Quanti gli strati della sua epidermide, le sue contraddizioni? Come due maschere burlone, sacro e profano si scambiano i ruoli di continuo; del resto, la città che conta più di 500 chiese non è forse la più superstiziosa al mondo? Una grazia te la può concedere tanto San Gennaro quanto il teschio agghindato di un’anima pezzentella, per non parlare poi del secondo patrono della città, il Dio pagano Maradona, il cui capello viene religiosamente custodito in una teca del Bar Nilo.

Napoli si gioca su più piani: puoi scendere metri e metri sotto terra per raggiungere i cunicoli della città sotterranea o toccare vette altissime con la pizza di Michele, la più buona di Napoli (e dunque del mondo, no?).

Puoi ammirare estasiato ogni minima piega del Cristo Velato, per cui il Canova in persona avrebbe dato 10 anni di vita, e – girato l’angolo – osservare ogni minima scrostatura della Madonna con la Pistola di Banksy.

Puoi immergerti nella quiete più perfetta tra le maioliche del chiostro di Santa Chiara e farti stordire, appena uscito, dal profumo di una sfogliatella calda o dalla confusione di San Gregorio Armeno.

E non puoi fare a meno di notare che è tanta la gente che, in Piazza del Plebiscito, si ferma quando risuona l’inno di Mameli (poropopopopopò). Ma è molta di più quella che si stringe intorno al tizio con la chitarra che, proprio davanti al Gambrinus, intona Quanno chiove. Che, forse, prima ancora che italiano, un napoletano è soprattutto un napoletano.

Napule è dunque mille culure, mille paure, ma pure mille città. Difficile credere che il patinato Vomero e la decadente Sanità siano due facce della stessa medaglia. Impossibile non innamorarsi di una e poi anche dell’altra, di quella Napoli pulita e ‘bene’ che passeggia per Via Scarlatti e ancor di più di quell’altra, screpolata e grigia eppure anch’essa nobile, con quei suoi palazzi settecenteschi e la costante presenza del principe Antonio de Curtis, la cui immagine occhieggia pressochè da ogni parete.

Per cercare di riunire tutte queste anime, questi volti, potresti pensare di guardare Napoli dall’alto. Da Castel Sant’Elmo, ad esempio. E in quel disegno che è la città, vedrai una linea netta, che sembra calcata da una mano un po’ troppo pesante: è Spaccanapoli. Un’arteria che taglia in due la metropoli, un decumano dalle origini antichissime.

Staresti un pomeriggio a guardarli – quel solco spesso e sullo sfondo lui, il Vesuvio – eppure, da lassù, prima o poi dovrai pur scendere. E allora ecco l’ennesima dicotomia partenopea: niente di più comodo della metropolitana – magari con fermata a Toledo, che è la stazione più bella d’Europa – ma come dire di no a quel sistema di scale e prospettive che farebbe impazzire anche Escher?

Via, allora! Puoi optare per la Pedamentina, super panoramica, oppure per la rampa del Petraio, tranquilla, discreta e bellissima. O ancora, puoi prendere la Pedamentina, pensare che di sicuro anche il Petraio aveva il suo perchè e imboccarlo in salita con 30°, poca acqua in borsa e la pizza fritta di zia Esterina nella pancia (fatto).

Quattro giorni dopo il mio arrivo, lascio a malincuore la stanza su via Pignasecca. Travolta e stravolta, della bella Partenope non penso di averci poi capito molto: delle sue anime ho perso il conto da mo’.
Una certezza però ce l’ho: d’ora in poi sarà molto difficile passare di qui senza fermarmi.

Alla prossima, Napoli.
Che mi avresti fatto questo effetto, lo sapevo – chissà perchè – ancor prima di vederti.

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