La penultima volta che sono stata a Dubai, la Dubai Frame – una sorta di Star Gate degli Emirati – non era ancora stata costruita. Ci sono salita un paio di mesi fa, in occasione di un paio di giorni trascorsi in solitaria nella megalopoli del deserto, in attesa che venisse formalizzato il visto per trasferirmi in Oman.
In linea con lo stile esagerato e spettacolare della città, la Dubai Frame non mi ha delusa: grazie alla sua posizione (e ai suoi 150m di altezza), ti consente di vedere, da un lato, il basso profilo della città vecchia e, dall’altro, lo skyline della nuova.
Ma è corretto parlare di ‘città vecchia’? Come dicevo qui, continuo a sostenere che non abbia senso cercare il passato a Dubai, moderna per definizione, emersa dalle dune più o meno da un giorno all’altro. E’ invece interessante cercare di cogliere quelle che sono le tradizioni culturali emiratine che sì, esistono, ma vengono spesso ignorate perché schiacciate da immagini troppo potenti di mall e grattacieli. Per scoprire il lato nascosto di Dubai, oggi c’è tutto un quartiere: quello di Al Fahidi (che fino a qualche anno fa si chiamava Bastakiya).
Quella che troverai nell’Al Fahidi Historical Neighbourhood – questo il nome completo – è una Dubai più a misura d’uomo, che ti racconta un po’ della sua storia, della sua religione, delle sue usanze. Che ti fa entrare nelle moschee e nelle case, scoperchiare pentole e aprire armadi. E dove, se il caldo non ti ammazza, puoi persino camminare, toh.
Tra torri del vento, caffè e gallerie d’arte
Al Fahidi è una zona situata nel Creek, area strategica in cui, a partire dal diciannovesimo secolo, si insediarono i primi abitanti della città, per lo più tawash, mercanti di tessuti e perle provenienti dalla Persia. Oggi il quartiere è una ricostruzione di ciò che fu un tempo, un labirinto dalle case color del deserto, costruite con pietra, legno e fronde di palma. Svettano alti i barajeel, le torri del vento (foto sopra), che devono il loro nome all’antico sistema di condizionamento utilizzato per raffreddare le stanze. Di autentico non c’è nulla, ma passeggiare tra queste vie è comunque piacevole: la sensazione è quella di entrare in un piccolo villaggio fuori dal tempo. Quelle che all’apparenza sembrano case tutte uguali nascondono negozietti etnici, freschi cortili interni, minuscoli musei (come quello del caffè) e fantasiose gallerie d’arte: la Majlis Gallery, ad esempio, è la più antica di Dubai, ma io ho preferito la Alserkal Cultural Foundation; mi è piaciuto osservare come alcuni artisti fondano nelle loro opere passato e presente, occidente e oriente.
Dato il caldo, potresti aver voglia di qualcosa di dissetante: i caffè disseminati per Al Fahidi sono parecchi ma il più caratteristico è senza dubbio l’Arabian Tea House. Varcata la soglia, entrerai in un mondo nuovo, che ricorda un po’ il Mediterraneo, un po’ la Grecia. Sedute azzurro cielo, bianchi cuscini di pizzo, un grosso albero al centro del patio, fiori ovunque. Un locale che non è solo bello in sé, ma che mira a riproporre il concetto delle antiche case da the arabe, luoghi in cui ci si rifugiava per sfuggire al caldo, rilassarsi o trattare affari. Intrattenuta dalla mia vicina di tavolo – una loquace cinese che parlava di urne funerarie, fantasmi e insonnia – mi sono buttata su di un ice tea marocchino profumato alla menta.
Il fulcro di Al Fahidi è però lo Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding (SMCCU), un’organizzazione che – forte dello slogan Open Doors Open Minds – promuove la diffusione dei costumi emiratini tramite una serie di attività aperte al pubblico. Io ho preso parte a due, la prima delle quali è la seguente.
Cultural Meal
Si chiamano proprio così gli eventi culinari organizzati dallo SMCCU. L’obiettivo non è imparare a cucinare ma apprendere qualcosa di più sulla cultura degli UAE grazie a una chiacchierata informale di fronte a una bella tavola imbandita. O meglio, tappeto, dato che si mangia seduti a terra, sui cuscini. Prenota sul sito l’appuntamento che preferisci (colazione, pranzo o cena), tenendo presente che in ciascuno di essi verranno proposti piatti leggermente differenti. Io ho partecipato a un pranzo e in tavola sul tappeto ho trovato due pietanze a base di riso e carne speziata (biryani e machbous), uno stufato di carne e verdure (saloona), insalate e un paio di foala, gli antipasti emiratini. Come dessert, non potevano mancare i luqaimat, una sorta di frittelle dolci che, dopo aver sfrigolato nell’olio bollente, vengono servite con melassa e semi di sesamo (le adoro)!
Onnipresenti in quanto simbolo di ospitalità, sono datteri e caffè (gahwa). Quest’ultimo è simile a quello omanita (ma non a quello turco ad esempio); chiaro e leggero, è molto speziato: cardamomo, zafferano, chiodi di garofano e acqua di rose sono alcuni tra gli aromi che riconoscerai al suo interno. Viene versato con la tipica caffettiera araba, la dallah, e servito in tazzine prive di manico, le fenjaan.
E mentre si mangia? Tra un boccone e l’altro, il nostro ospite, emiratino DOC, ce la racconta. Parla di cibo naturalmente ma anche d’altro: di abiti, ad esempio. Scherza sul candido kandura (o dishdash) e sul fatto che tutti gli occidentali si chiedano cosa ci sia sotto: svelato il mistero, c’è una specie di pareo (e l’intimo, ovviamente). Racconta della kefia, di come veniva usata dai beduini per ripararsi dalle tempeste di sabbia, e di quanto fosse prezioso l’agal, l’elastico nero che la tiene salda sul capo ma che, nel deserto, serviva per legare le gambe dei cammelli, affinchè questi non se la svignassero durante la notte.
Per raccontare gli abiti femminili, sceglie quattro ‘volontarie’: una, nonostante cercassi di mimetizzarmi col tappeto, sono io. Amo ascoltare tanto quanto detesto esibirmi, eppure mi tocca: indosso un abito tradizionale e faccio una piccola sfilata. Mi capita il vestito delle feste, il più bello, pare: un abaya nero sul quale scivola una seconda tunica – blu e argento, nel mio caso – piena di ricami e perline, pesantissima. In testa, il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi. Un’altra ragazza indossa un’antica maschera beduina in pelle, un’altra l’hijab, che lascia scoperto tutto il viso. Nessuna il burka anche se, in giro per Dubai, alcuni ne ho visti.
Sul finire del pranzo, si diffondono le note intense e speziate dell’oud, trend olfattivo caratteristico degli Emirati quanto il franchincenso lo è dell’Oman. Profumatissimo ricavato della resina di agarwood, il legno di aquilaria, l’oud è uno dei materiali più costosi al mondo: fino a 40mila euro al kg quello purissimo (più dell’oro!), molto molto di meno quello diluito e mescolato con altri oli e fragranze, come nel nostro caso. Ha origini molto antiche, che affondano le radici nelle tende beduine: le tribù nomadi lo utilizzavano per profumarsi e per tenere lontani gli insetti. Oggi viene bruciato in appositi incensieri e il suo aroma inconfondibile riempie le hall dei grand hotel, l’ingresso delle case e, se ci fai caso, persino alcune aree dell’aeroporto. Un’alternativa meno costosa e meno intensa? Il bakhoor, trucioli di agarwood impregnati di fragranze di sandalo o gelsomino per addolcirne le note.
Jumeirah Mosque, via libera ai non musulmani
E’ la seconda attività proposta dallo SMCCU a cui ho preso parte: la Jumeirah Mosque non è certo tra le più stupefacenti degli Emirati ma, a Dubai, è una delle pochissime aperte a un pubblico non islamico. Si trova a circa 20 minuti d’auto da Al Fahidi, vicino alla spiaggia di La Mer e la si può visitare solo tramite tour guidato. Alle donne verranno forniti foulard per coprire il capo e, eventualmente, abaya per nascondere gambe e braccia.
Di per sè la moschea non è enorme (accoglie fino a 1500 persone) e conta appena due stanze, una più grande destinata agli uomini e una più piccola per le donne. Anche in questo caso però, è la chiacchierata a essere interessante: dopo averci mostrato il rito di purificazione che precede la preghiera (le abluzioni o wudu), tra le insolite tinte pastello che colorano le pareti della moschea, la nostra guida ci spiega i cinque pilastri dell’Islam, il ruolo del Muezzin che viene invitato a cantare per noi e, infine, il rituale di preghiera. Il tutto in un ambiente molto rilassato e informale.
Che ne pensi? Certo quello proposto dallo SMCCU non è un intrattenimento adatto a tutti perchè, più che sull’esperienza in sè, si focalizza molto sulle parole e le conversazioni avvengono esclusivamente in inglese; tuttavia, se non hai problemi con la lingua, può essere una valida alternativa ad attività più tradizionali (come queste, ad esempio) e darà un sapore diverso alla tua esperienza a Dubai.
Ci sono stata, anche se in agosto e quindi con un caldo incredibile. E’ la parte di Dubai che preferisco, perchè è la più vera. Amo Dubai anche per le sue ostentazioni, ma qui respiri la sua storia.
Fossi a Dubai, participerei molto volentieri ad un cultural meal. Se fossi….
Ciao. Grazie
Grazie a te!