Grande all’incirca come l’Italia, l’Oman – anche a causa delle non poche asperità del suo paesaggio – conta appena 5 milioni di persone. Di queste, poco meno della metà sono, proprio come noi, espatriati e risiedono nella capitale, Muscat.
Gli altri centri abitati sono raccolti nel nord del Paese e, escludendo cittadine vere e proprie come Nizwa e Sur, sono agglomerati rurali o montani che contano poche migliaia (centinaia?) di individui ciascuno. Che siano in progressivo abbandono è lecito presumerlo, considerando che – altro dato straordinario – più del 40% della popolazione omanita è giovanissima: meno di 25 anni. Questi villaggi vivono per lo più di agricoltura e allevamento, il muso barbuto di una capra che si affaccia in ogni dove. I bambini giocano in strada, le lunghe tuniche che li avvolgono fin da piccoli, e le donne, invece del severo abaya nero che impera a Muscat, portano vesti ricamate e colorate. Se capita di vedere una donna. Perchè, transitandovi, si ha l’impressione che questi paesi siano abitati da soli uomini: forse, lontano dalla capitale, oltre agli abaya, anche la condizione femminile assume altri toni.
Sopravvissuti o abbandonati, i villaggi omaniti restano comunque – a mio parere – una delle pagine più interessanti del Paese; eccone cinque, che puoi visitare con una gita in giornata partendo da Muscat.
Misfat al Abriyeen
E’ un villaggio di montagna, situato a un’altitudine di circa 1000m. Tutt’ora abitato, è forse uno dei più turistici ma non per questo meno apprezzabile di altri. Prima di entrarci, osservalo da lontano. Come vedi nella foto qui sotto, Misfat è composto da due zone: la parte nuova (a sinistra, più colorata e abitata) e quella vecchia (a destra, monocromatica). Dietro, la nuda roccia delle montagne – tra cui spicca come sempre in Oman una torre d’avvistamento – e davanti, un’oasi: un palmeto ampio e verdeggiante. Con queste premesse, puoi addentrarti nella cittadina. La parte vecchia è più interessante: praticamente disabitata, a parte una guesthouse e un ristorante, segue la geografia della montagna a cui si aggrappa, con rampe ripide e pendenti e passaggi stretti. La luce del sole colora d’oro i muri delle case più antiche, fatti di mattoni rudimentali di fango e pietra.
Questo fino a che non si entra nell’oasi: umida e lussureggiante, Misfat cambia aspetto offrendo al visitatore uno spettacolo terrazzato di palme e alberi da frutto – non solo datteri, ma anche melograni, banane e manghi a seconda della stagione. L’acqua? Arriva dal tanto basilare quanto efficiente impianto a falaj, il sistema d’irrigazione tutto omanita dichiarato patrimonio Unesco (se non sai di cosa si tratta, ne ho parlato qui).
Ti piace camminare? Se sì, la cittadina di Misfat offre trail escursionistici di diversa lunghezza e difficoltà che si spingono dentro l’oasi, in cima ai terrazzamenti e, i più impegnativi, all’interno della vallata.
Al Hamra
A meno di 10km da Misfat, è senza dubbio il villaggio che mi ha colpita di più. Quello di Al Hamra è un mondo sopravvissuto, che si svela ai tuoi occhi con le sembianze di uno scenario post-apocalittico, pronto a sbriciolarsi da un momento all’altro. E non sono ironica: per quanto abbia amato questo luogo, è con un certo sollievo che sono uscita da un labirinto di costruzioni innegabilmente pericolanti.
Al villaggio si accede attraversando un palmeto; all’ombra delle lunghe foglie, non dovrai far altro che costeggiare uno dei tanti canali d’irrigazione. Di colpo, noterai lo scenario cambiare: dal verde, si passa all’ocra. Con oltre 300 anni di storia alle spalle, quello di Al Hamra è uno dei villaggi meglio conservati dell’Oman, abbandonato, così ci è stato detto, solo una ventina di anni fa. Portoni arrugginiti, alcune case già rovinate al suolo e ridotte a mucchi di detriti, altre ancora miracolosamente in piedi: e la cosa più impressionante è che alcune di esse si ergono addirittura su tre, quattro piani!
Molto interessante – ma chiuso nei mesi estivi – è il museo di Bait Al Safah. Interessante perchè è un museo vivente. Un po’ difficile da localizzare non essendo ben segnalato, si tratta di una casa vera e propria, appartenuta a una famiglia benestante e oggi completamente ristrutturata negli interni; l’obiettivo è quello di offrire ai visitatori un’esperienza quanto più autentica possibile dello stile di vita omanita. Il pezzo forte però, sono le persone. Perché a Bait al Safah le tradizioni e gli antichi mestieri prendono vita: donne anziane e chiacchierone (ma solo in arabo) mostrano come viene tostato il caffè, come si estrae l’olio, usato anche per il corpo, e come si prepara il khubz, il sottilissimo pane omanita che puoi anche assaggiare.
Il nostro cicerone, che invece l’inglese lo parla, ci offre dei datteri, ci porta ai piani superiori e infine sul tetto-terrazza, per una visuale impressionante di Al Hamra. C’è davvero da chiedersi dove siamo finiti: un paese vuoto, distrutto, le vie deserte, le finestre cieche. E dietro, il profilo di una montagna arida, vuota anch’essa. Il set di un film, insomma. Solo che non è un film.
Tanuf
Posizionata in cima ad una collinetta dalla quale si scorge un bel wadi dal nome omonimo, Tanuf – o meglio le sue rovine – sono quanto resta di un insediamento un tempo prospero. Abbandonato negli anni ’50, il villaggio di Tanuf è stato tra i testimoni della guerra di Jebel Akhdar, che ha visto l’interno del Paese, guidato dall’Imam Ghalib Alhinai, contrapporsi ai piani di espansione del sultano Said bin Taimur – padre del compianto sultano Qaboos – supportato dal governo britannico.
Annientata prima dai bombardamenti della RAF e poi dall’azione del tempo, di Tanuf oggi non resta molto ma quel che c’è è di forte suggestione. Malinconica e drammatica, Tanuf è un muro di sabbia che si sgretola se lo accarezzi, una parete isolata con qualche buco abbastanza grande da lasciar intravedere i monti di Al Hajar, un arco lanceolato come vuole lo stile arabo, un mucchio di pietroni a sbarrare quella che una volta era una via, una finestra che forse un tempo era coperta da una grata traforata. Una passeggiata tra le rovine di Tanuf al tramonto, vale davvero la pena farla.
Birkat Al Mawz
Organizzata in due distinti gruppi di ruderi, Birkat è un altro incantevole pezzo dell’Oman più antico: portoni chiusi dai battenti in ottone, eleganti fregi arabi a contrasto con pareti di fango screpolato e numerose case abbandonate, addossate le une alle altre. In alcune di esse, con la dovuta precauzione – perchè ancor più che ad Al Hamra l’impressione è che ti rovini tutto in testa – è possibile entrare: non c’è nulla da vedere però, se non scalini che più nessuno sale, cumuli di macerie, tetti di paglia e terra pronti a sfaldarsi. Stanze buie, dove abita solo la desolazione.
A parte qualche turista, l’unico segno di vita che vedo è un vecchio in turbante e l’acqua degli aflaj, che scorre rapida e pulita. E dove c’è l’acqua non può mancare la vegetazione: Birkat al Mouz significa qualcosa come ‘conca di banane’ ed è infatti dietro a palme altissime, anche da dattero, che il villaggio si nasconde.
E’ un parere personale, ma la bellezza di Birkat, la si coglie più a distanza che non al suo interno: sulla strada che porta al Jebel Akhdar, la montagna verde, cerca una deviazione per una piccola altura. Da lassù, Birkat e il suo palmeto si spiegano in tutto il loro fascino arcaico: spesso paragonata a un presepe – analogia piuttosto bizzarra per un paese arabo – le rovine a destra sono le più scenografiche, abbracciate da quello che sembra un arcobaleno di pietra.
Harat Al-Yemen (Izki)
E’ uno degli insediamenti più antichi di tutto l’Oman, tanto da essere citato addirittura all’interno di testi attribuiti al re assiro Assurbanipal (640 aC). Distrutto e ricostruito più volte nel corso dei secoli, Harat – oggi inglobato nella cittadina di Izki – sembra ormai essere arrivato al capolinea ma, sebbene abbandonato in modo definitivo, continua a rivestire grande interesse.
A differenza degli altri villaggi, che appaiono come agglomerati confusi appollaiati su di un pendio, Harat presenta una topografia più definita: le vie sono ben tracciate e le mura che cingevano la cittadina – con tanto di torre d’osservazione – ne determinano i confini in modo netto. E’ insomma possibile ‘passeggiare’ al suo interno come in Italia faremmo a Pompei ad esempio, e osservare da vicino le abitazioni. In queste case sventrate, sotto i tetti franati e tra le stanze stanze invase dagli arbusti, si trovano gli indizi di una vita semplice, accompagnati però da un certo gusto per il dettaglio: i decori sulle porte e intorno alle finestre spiccano tra le crepe e fanno supporre che la città non sia stata abbandonata poi troppo tempo fa; forse, solo qualche decennio. Di certo (almeno) fino agli anni ’70, le vie di Harat non erano immerse nel silenzio che oggi le caratterizza.
Quanto ancora vivranno questi villaggi, è difficile immaginarlo. Come detto più volte, si tratta di siti pericolanti: per questo consiglio vivamente a chi li visita di usare prudenza e soprattutto di evitare di entrare nelle singole abitazioni, per quanto possa essere allettante l’idea di farlo. Di certo i materiali con cui sono costruiti non lasciano presagire una vita molto duratura e, al momento, non mi pare siano in atto opere di ristrutturazione (al contrario invece di quanto accade per forti e castelli). Sono infatti lasciati completamente a se stessi, tant’è che per visitarli non si paga alcun biglietto (ad eccezione del museo di Bait al Safah).
Non da ultimo, va considerato anche un altro fattore spesso sottovalutato, il cambiamento climatico: abito a Muscat da fine settembre e, nel giro di un paio di mesi, ho assistito a svariati acquazzoni (lunghi e battenti). E’ questo un fenomeno decisamente insolito che ha stupito gli omaniti per primi e che, di certo, non si verificava nel momento in cui questi villaggi sono stati edificati: pioggia e case di fango non possono convivere a lungo.
Ho visitato l’Oman un paio di volte, ma questo giro dei villaggi mi manca proprio! Che incantevole esperienza!
Sì, sono deliziosi (a chi piace il genere, ovviamente!)