Non vedevo l’ora. Fuori dall’aeroporto riconosco subito il caos, lo smog che entra nelle narici. Riconosco la polvere, i motorini su cui si va anche in quattro. Che la chiamano City of Gods, nome assolutamente calzante, l’ho scoperto nel piccolo aeroporto di Pokhara, mentre sfogliavo le pagine di un libro in attesa che il volo con il piedone dello yeti dipinto sulla fiancata ci riportasse da lei. Kathmandu. La mia città-magnete.
Di qui, siamo di nuovo solo di passaggio. Anni fa sulla strada per il Bhutan, oggi pit-stop prima e dopo il trek dell’Annapurna. Forse è così che il nostro destino si intreccia con quello di questa città: scoprirla e riscoprirla un pezzo alla volta, anche a distanza di anni.
Prima di cominciare l’avventura che ci porterà all’ABC, il Campo Base di uno degli 8000 più famosi, abbiamo giusto il tempo di fare un giro a Thamel, il quartiere dei freak, per alcuni il più turistico.
Come ho già detto più volte, non sono tra coloro che vedono in ‘turistico’ un sinonimo di ‘deprecabile’. Thamel è il punto di arrivo (o di partenza) di ogni viaggio in Nepal, un luogo affollato tanto dalla gente del posto quanto dai backpacker che, indistintamente, si fermano per un boccone e un sorso di birra Everest o Gorkha in uno dei tanti rooftop restaurant che danno sul quartiere o girano tra le bancarelle per scovare chissà cosa. Noi siamo alla ricerca dei bastoncini da trekking che ci accompagneranno sull’Himalaya e di pasticche per disinfettare l’acqua.
Ci facciamo quindi largo tra ragnatele di fili elettrici, maglioni e berretti di lana, insegne disperatamente avvinghiate a pareti non troppo stabili, lucine, Buddha dalla pancia gonfia, Vishnu con le sue quattro braccia, bagh chal che vedono schierate tigri contro capre, campane tibetane, borsoni North Face contraffatti e rickshaw. Alla fine, troviamo quello che cerchiamo.
Nove giorni più tardi, conquistato il Campo Base, siamo di nuovo a Kathmandu. Decidiamo di tornare in due dei posti che abbiamo amato di più nel 2016, uno per il suo carattere luminoso e l’altro per il suo lato più nero. Lo stupa di Boudhanath ci sembra ancora più splendente di quanto ricordavamo: brulicante come un formicaio, addobbato con le bandiere di preghiera che la volta scorsa – il terremoto che aveva messo in ginocchio la città ancora troppo vicino – non erano state issate. E’ un’oasi di pace (sempre in termini nepalesi, sia chiaro) e gli occhi serafici di Buddha ti accompagnano ovunque.
Qualche giorno fa c’è stata una Puja in onore del Guru Rinpoche, primo e maggiore diffusore della religione Buddista, e la piazza è ancora un tripudio di offerte: fiori, riso, candele, acqua. Compiendo il giro intorno allo stupa – rigorosamente in senso orario – entriamo in un tempio. All’interno non si possono fare foto, ma ci portiamo via alcune vivide istantanee sensoriali: lo splendore dell’enorme Buddha dorato che accoglie il visitatore dalla parete di fondo, il mormorio sommesso dei devoti in preghiera, il profumo dolciastro delle candele di burro messe a solidificare nell’aria frizzante del pomeriggio e il tocco leggero di un monaco che, dopo aver bruciato un bastoncino d’incenso, ci ha donato la sua benedizione. Dalla terrazza del tempio, questa vista: Boudhanath in tutta la sua grandezza, i suoi occhi nei nostri occhi.
Il tempio di Pashupatinath, invece, ci si presenta ancor più nero di qualche anno fa. Ed è un peccato: immagina di avere a disposizione una palette di tonalità accese e allegre – il magenta dei templi, il giallo delle tuniche dei sadhu, il ciano del cielo – e ora mescolale. Quello che otterrai, a Pashupatinath, non è che una macchia opaca, di una gradazione brutta, incerta: Shiva smorza tutti i colori.
Il sacro Bagmati è un rivolo lercio, l’acqua spessa e torbida. Una quantità spaventosa di scimmie taglia la strada alla gente, salta, grida, mangia, defeca e si accoppia a pochi passi dai ghat, le pire su cui bruciano i morti. Che oggi sono davvero tanti. L’aria è impregnata di un odore indefinibile, la mia felpa bianca raccoglie frammenti di cenere portati in giro dal vento e ho gli occhi che bruciano a causa del fumo: ecco il grigio di Shiva. Un vecchio guarda le esalazioni dei cadaveri salire al cielo; siede con una calotta di panno tra le mani: è piena di popcorn. Probabilmente abbiamo indugiato su di lui un minuto di troppo, perché, con gli occhi buoni, ce la allunga offrendoci un po’ del suo contenuto. Popcorn in un cappello sudato e residui di combustione svolazzanti… Per una strana associazione di idee mi viene in mente l’anziana Himba che, in Namibia, ci aveva teso un bicchiere di latte cremoso e appena munto, tirato su da un grezzo secchio di legno. Proprio come quella volta, non voglio sembrare scortese ma rifiuto: no, grazie.
Mentre i morti continuano ad ardere, i mucchi di cenere si fanno sempre più alti: i becchini li riversano via via nel Bagmati, accelerando così il viaggio verso il loro paradiso. Avevo intenzione di assistere all’aarati, il rituale con cui i sacerdoti del tempio offrono a Shiva il dono della luce. Fanno roteare lampade accese, con gli stoppini imbevuti di ghee (il burro chiarificato usato anche in cucina), mentre i fedeli li accompagnano cantando i sacri bhajan. Purtroppo però, la cerimonia avviene tra le 6 e le 7 di sera e manca ancora troppo tempo: non riuscirei a resistere qui un’altra ora o più.
Un taxi ci riporta alla base. Alloggiamo in un hotel piuttosto noto, lo Yak & Yeti. Ad averlo reso famoso è il ristorante ‘The Chimney’ che, senza esagerare, è un pezzo della storia del Nepal. Infatti, forse non tutti sanno che il Paese è stato estraneo al turismo fino agli anni ’50. Governato come una specie di teocrazia feudale e mai colonizzato dagli europei, il Nepal era un mondo chiuso, alieno a qualunque tipo di modernità: niente strade asfaltate (ma su questo c’è molto da lavorare ancora oggi) né elettricità; la TV arrivò solo negli anni ’80. Incredibile pensare alla quantità di stravolgimenti epocali a cui ha assistito quella che oggi è la fascia più anziana della popolazione.
Ma torniamo al Chimney. Se il Nepal ha aperto le porte al turismo è stato proprio grazie al fondatore di questo ristorante. Boris Lisanevich, con una vita che sembra una favola, è stata la scoperta più curiosa del mio viaggio. In fuga dalla rivoluzione bolscevica, Boris è stato ballerino classico, cacciatore di tigri, pilota, trapezista, amico di Ingrid Bergman, gestore di club notturni e, infine, pioniere del turismo in Nepal, dove si stabilisce diventando proprietario di un hotel e chef del ristorante annesso. Invitato dal re Tribhuvan negli anni ’50 ad aprire un albergo a Kathmandu, Boris ha fatto entrare nel Paese il primo gruppo in assoluto di turisti – per lo più donne, appassionate di montagna – con la promessa di mostrare loro le vette più sensazionali del mondo. Il resto è storia.
Boris è scomparso nel 1985 all’età di 80 anni, ma l’hotel da lui fondato, lo Yak & Yeti, e il suo ristorante – che prende il nome dal grosso camino posto al centro della sala principale – sono ancora lì. Il primo è diventato una proprietà a cinque stelle, il secondo è uno dei pochi fine dining restaurants del Paese. Il piatto di punta è ovviamente una pietanza russa, il borscht, la tradizionale zuppa di barbabietola servita con un cucchiaio di panna acida. Ma ci sono anche i super-nepalesi mo:mo, invitanti tacos, frittelle di mais e svariati piatti di carne. Come dessert suggerisco il Baked Alaska Sagarmatha, versione locale del famoso dolce flambè Baked Alaska (Sagarmatha è il nome con cui i nepalesi indicano il Monte Everest). E nel bicchiere? Il Chimney ha una cantina di tutto rispetto: abbiamo trovato un piemontesissimo Gaja!!
Torno in Oman portando con me la biografia di Boris, l’eccezionalità dell’incontro con la dea Kumari, una campana tibetana forgiata nei suoi sette metalli in una notte di luna piena e la consapevolezza che, con questa pazza città, ci sarà una prossima volta. Presto, spero.
Nota: la foto del Chimney è tratta dal sito www.yakandyeti.com. La mia era troppo buia. Il borscht invece è quello che mi sono mangiata! 🙂