Oman, terra di montagne, di villaggi semi abbandonati, di mare cristallino e di dune. E’ soprattutto il deserto a prendersi la fetta più grande del Paese, circa l’80% del territorio. A sud, sconfinante in Yemen e Arabia Saudita, c’è il Rub al Khali, per estensione la seconda distesa sabbiosa del pianeta. Lo chiamano ‘quarto vuoto’ perchè, stando al corpus religioso/mitologico dell’Islam, Allah suddivise l’universo in quattro parti: una l’occupò il cielo, un’altra la terra e una terza l’acqua; la quarta restò vuota e venne a poco a poco inghiottita dalla sabbia. Poi c’è Al Khaluf, destinazione non ancora di massa, dal profilo candido: le sue, le chiamano sugar dunes. E ancora, un ritaglio di deserto si innalza nel bel mezzo di Muscat, tra strade asfaltate e palazzi in costruzione: le Bawshar Sands sono praticamente dietro a casa mia, tanto che, quando il vento è particolarmente forte, la sabbia mi entra negli occhi e sotto le porte. Non hanno nulla della magia delle notti d’Oriente, ma se sei interessato a scorrazzare con quad e jeep, le dune di Bawshar sono perfette.
In questo post ti racconto però la mia esperienza di due giorni nel deserto di Ash-Sharqiyah (anche conosciuto come Wahiba Sands), un’affascinante e colorata regione a circa 300km da Muscat: aggiustiamo la pressione delle gomme e partiamo!
Dormire in un campo tendato
L’esperienza nel deserto è necessariamente legata al concetto di tenda. Più o meno lussuosa, essa appartiene alla cultura e alla popolazione che da sempre cavalca le dune, quella beduina. Sebbene in Oman il wild camping – ossia il piantare una tenda più o meno dove ti pare – faccia molti proseliti, chi come me non ama il campeggio ha un’opzione di gran lunga migliore (anche se, com’è logico, più dispendiosa): quella del campo tendato.
Nella regione di Ash-Sharquiyah ce ne sono a decine: i più lussuosi sono quelli mobili che, dotati di comfort degni di un sultano, vengono allestiti appositamente per il visitatore. Sono però disponibili solo da settembre ad aprile: nei mesi più caldi, a causa delle elevate temperature, l’Oman interrompe questa e altre attività turistiche e, di certo, se hai intenzione di sperimentare il deserto, non posso che sconsigliarti di farlo in estate.
Meno costosi e tendenzialmente aperti tutto l’anno sono invece i campi tendati fissi, ubicati in luoghi più o meno remoti. Per non avere brutte sorprese, evita di prenotare strutture raggiungibili senza 4WD: molto probabilmente, appena dietro alle dune, una striscia di asfalto corre a rovinarti l’atmosfera. Noi abbiamo optato per un campo che – oltre alla possibilità di pernottare in sistemazioni in stile beduino, bugalow dalle pareti interamente in tessuto – distasse da Bidiyah, ultimo centro abitato prima del deserto, alcune decine di chilometri. Eccolo qui:
Un weekend tra le sabbie di Ash-Sharquiyah, le attività
Sistema le tue cose in camera e poi arrampicati sulla duna più accessibile. Quelle di Ash Sharquiyah non sono altissime, niente a che vedere con quelle color ruggine di Sossusvlei, in Namibia: l’ascesa sarà piuttosto semplice. Senti i piedi che affondano nella sabbia, il formicolio dei granelli che ti entrano nelle scarpe, il sole che batte sulla pelle, il vento che gioca. Guardati intorno solo una volta arrivato in cima, laddove il profilo della duna si arrotonda per cominciare la sua discesa dalla parte opposta: se hai scelto bene il tuo campo – ecco perché è importante – intorno a te non vedrai che sabbia, a 360 gradi. Un oceano di onde dorate, se il sole è ancora alto, o rosse se le ombre già si allungano.
Il deserto. Aspro alla vita ma dolce alla vista, immobile eppure ridisegnato a ogni sbuffo d’aria, luminoso, feroce, ingannatore, romantico, spietato, mistico e puro, purissimo. Non puoi che fermarti qui, seduto sulla duna più alta, a contemplarlo per un bel po’, almeno fino a che il sole non ti stordisce. Solo allora, comincerai a scendere verso i cubicoli neri del tuo campo tendato, un po’ dispiaciuto di rovinare quella geometria perfetta e ondulata con le tue impronte, pesanti e sgraziate.
Se non te la senti di avventurarti a piedi, niente paura: ogni campo prevede escursioni in jeep che hanno il pregio di portarti in zone ancor più remote e panoramiche e, spesso, ti consentono di sperimentare il dune bashing, la guida spericolata su sabbia, che avevamo già avuto modo di testare durante una gita fuori porta a Dubai.
Noi, all’escursione in jeep abbiamo aggiunto un’esperienza particolare, vale a dire la visita a una tenda beduina, una tenda vera. Sottolineo ‘vera’ perché il binomio tenda+beduina evoca nell’immaginario turistico/collettivo un’idea piuttosto irreale: un giaciglio a baldacchino, un pavimento foderato di cuscini e tappeti e magari un tizio in turbante che ti porta datteri e caffè su di un vassoio dorato. Tende simili esistono e le puoi trovare praticamente in ogni struttura nel deserto: padiglioni da mille e una notte allestiti unicamente a beneficio degli ospiti, come quello della foto di copertina.
La tenda in cui abbiamo avuto modo di entrare è invece ben diversa. Il ‘baldacchino’ è un insieme di teli grigi e tappeti usurati che conferiscono alla tenda un aspetto sbilenco, disordinato e che le restituiscono il suo significato originario, quello di bivacco. Ci accoglie una capra pezzata seguita dal suo piccolo, un cosino tutto nero e belante. Si affaccia poi una bambina che non avrà più di cinque anni. Ha la pelle dorata, occhi nerissimi e pungenti e, nonostante il vestito di un rosa non troppo pulito, non è difficile indovinarne la bellezza. Appartiene a una famiglia nomade, beduina, che per svariati mesi l’anno vive qui, tra le dune del deserto.
Prima di entrare nella tenda, ci togliamo le scarpe: nonostante la presenza degli animali e la sabbia praticamente ovunque, si usa così. All’interno vi sono due donne. Siedono su di un tappeto e ci fanno con la testa un cenno di saluto. Una di loro indossa la tradizionale maschera di pelle della gente del deserto, mentre l’altra, la più vecchia, si tiene il velo sul viso, lasciandoci guardare solo gli occhi. Non parlano mezza parola d’inglese e, a raccontarci un po’ della loro vita da allevatori di capre e cammelli, è la nostra guida.
Arriva anche il caffè, servito in un thermos anonimo ma profumato come quello versato dalle dallah, e segue un’abbondante presa di datteri – dolcissimi, quasi stucchevoli – tappati da un coperchio di plastica a tenere lontane le mosche. Le stesse che, presumibilmente, infastidiscono le capre. Tra pochi mesi, questa tenda verrà smantellata o abbandonata: nemmeno i beduini restano nel deserto in estate.
Togliamo il disturbo tra uno scambio reciproco di shukran e dell’universale bye bye, seguiti dallo sguardo penetrante della bimba con gli occhi di carbone. Di questa visita non ho alcuna foto, perchè ritengo sia una di quelle esperienze da fare in punta di piedi: la tenda beduina che dà il titolo al mio post è naturalmente questa, non certo quelle in cui noi turisti pensiamo di dormire.
Le foto, le scatto invece con piacere all’orice d’Arabia, un animale che scopro essere fortemente minacciato. Agli orici non sono nuova, ne ho visti in quantità nella già citata Namibia, ma quelli omaniti sono molto diversi: sono più piccoli e, soprattutto, bianchi. Anni di vita e di safari nel continente nero, hanno radicato in me una profonda avversione per la cattività e storco il naso al constatare che questi animali sono chiusi in un recinto. Tuttavia, dietro questa scelta c’è una storia che vale la pena raccontare: negli anni ‘80, l’Oman aveva istituito il Santuario dell’Orice d’Arabia, un’ampia riserva naturale creata allo scopo di preservare e favorire la reintroduzione della specie in natura. Un’operazione più che ammirevole, tant’è che la riserva fu dichiarata patrimonio UNESCO.
Con gli anni però, il governo riduce poco a poco l’area ad essa dedicata: del territorio originale non ne resta che il 10% e il già esiguo numero di esemplari d’orice bianco precipita ulteriormente. L’UNESCO non ci sta e, nel 2007, il Santuario ottiene un triste primato: diventa il primo (e finora unico) sito a essere rimosso dai patrimoni dell’umanità. L’orice bianco è tuttora una specie in via d’estinzione: chissà che una cattività adeguatamente regolata possa contribuire a risollevarne le sorti future.
Dopo una notte fredda e, ahimè, senza una stella (peccato! Se non ci fossero state nubi, la Via Lattea avrebbe brillato come non mai), torniamo a Muscat. Lasciamo la nostra oasi per percorrere nuovamente quel tratto che, dopo una duna particolarmente alta, diventa una specie di Dakar, una pista larga e piatta che prosegue per decine di chilometri. A variare il nostro paesaggio rosso, gruppetti di dromedari che ruminano svogliati nei loro recinti, in attesa di essere venduti al prossimo souq o di partecipare a una corsa, evento ‘sportivo’ che, da queste parti, va per la maggiore. Una lunga fila bianco nera ci si para davanti all’improvviso: è ancora lontana e ci metto un po’ a capire che si tratta di capre che, in formazione serrata e polverosa, attraversano la pista di sabbia (!). Una visione illogica e bizzarra, ma proprio per questo divertente. In alto, in cima alle dune, cubicoli nero-grigi: le tende dei beduini.