Oggi, per l’Italia, è il giorno della ripartenza.
Per me, qui in Oman, non ancora. Da quasi due mesi sono chiusa in casa, anche se non proprio sigillata dato che ho la fortuna di vivere in un compound: posso camminare al suo interno e persino portare il cane in un minuscolo parchetto. Per vedere un po’ di mondo mi affaccio al balcone e quei minareti blu che ho amato sin dal mio arrivo oggi mi sembrano lontanissimi. Lontanissima mi pare anche la notte in cui siamo andati a vederli da vicino, impacciata in quella gonna lunga indossata per la prima volta, io che prima di trasferirmi in un paese arabo solo shorts e vestine corte.
Ma ci si abitua a tutto e la gonna lunga è il meno: ti fa sentire un po’ principessa e un po’ zingara, come amava definirmi il nonno. Termine che, a pensarci bene, trovo molto appropriato nella sua accezione di gitana, girovaga e, fondamentalmente, libera.
Qualcuno, poi, è riuscito ad abituarsi addirittura alla quarantena, altro che gonne lunghe. Gente che dichiara di essere stata bene in solitudine, che degli amici non ha sentito chissà che mancanza, perché sai, sono un’introversa, c’ho le mie cose e bla bla bla. Bhe, io mi sono sempre – sempre – ritenuta un’introversa doc e in tutta onestà posso affermare che no, non ci sono stata – anzi non ci sto, visto che per me non è finita – un cazzo bene in quarantena. Mi mancano (e se penso a certe fasi della mia vita mi stupisco di me stessa)… le persone. Toh, proprio loro! Chiaro, non troppe: non esageriamo. Eppure, alla faccia della mia introversione e poca propensione al contatto fisico, avrei voglia di una festa zeppa di gente, come quelle che facevamo in Angola e, ancor di più, di abbracciare tutte le persone con cui chatto su whatsapp ogni giorno.
In queste settimane sono passata attraverso più fasi di Picasso e il mio umore ha disegnato parabole di positività, sconforto, frenesia e apatia più complesse di qualunque proiezione della curva del contagio. Non so se la mia (in)stabilità mentale debba ancora raggiungere il picco, se è sul plateau o se è partita per la tangente (se così fosse, beata lei: almeno qualcuno che parte c’è).
Il fatto è che non posso fare a meno di pensare a tutto ciò che il virus ci ha tolto. Sorrisi, sfide, pacche sulle spalle, colazioni al bar, corse, sguardi, viaggi, camminate mano nella mano, raggi di sole. Per non parlare di sogni cullati da tempo, resi ancor più irraggiungibili se non del tutto irrealizzabili. Ma che vuoi che sia un sogno, una colazione al bar, un viaggio o una carezza. Possiamo farne a meno per qualche tempo, no? No, non possiamo. Quel che sembra così futile è ciò che invece dà sapore alla vita che, privata di queste cose, abbiamo capito tutti che gusto ha. Non sa di niente.
Quindi, caro tizio-che-sei-stato-bene-in-quarantena… non dire cazzate, su.
Questo quattro maggio di certo non cancellerà tutto quello che è stato, né segnerà il ritorno alla normalità. Ma è una ripartenza e, rispetto al limbo che ci ha visti sospesi per settimane, è già qualcosa. Tante cose cambieranno, altre gradualmente torneranno come prima. Con tutta probabilità, un anno non basterà ma, chissà, potremmo stupirci ancora una volta di noi stessi. Del resto, insegna Darwin, non sopravvive il più forte: sopravvive chi ha più capacità di adattamento.
Buon 4 maggio, Italia.
Ciao Cristina, ho scoperto oggi il tuo blog, hai proprio ragione, sono stanca di sentire stupidaggini, le cose essenziali non sono solo il cibo o le medicine, anche io spero che oggi sia una specie di nuova “festa nazionale”, ciao Claudia
Grazie Claudia, di sicuro sarà una data che ricorderemo. Speriamo con piacere!