“I Sassi, quei coni rovesciati, quegli imbuti, hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante. E cominciai anch’io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo”.
Mi viene difficile parlare di Matera. Mi ha sempre emozionato il suo percorso che da vergogna d’Italia – così come la definì Togliatti – l’ha vista trionfare come Capitale della Cultura nel nostro secolo. Ecco perché, in questo post, prendo in prestito le parole di Luisa Levi, sorella di Carlo, che, nella sua discesa di nemmeno troppi decenni fa, si imbattè in uno scenario che mai avrebbe potuto immaginare: uomini che abitavano grotte umide e malsane insieme ai loro animali, donne dai volti scavati come le pareti del burrone in cui scorreva la Gravina, bambini che elemosinavano non caramelle ma chinino, per combattere la malaria.
E pensare che il riscatto di Matera è avvenuto quasi per caso. A destare un Paese ignaro, fu il libro di un medico artista, un po’ pittore e un po’ scrittore; un torinese che, negli anni ’30, venne mandato al confino proprio in Lucania. Il medico era Carlo Levi e il libro, naturalmente, è Cristo si è fermato a Eboli.
Opera bellissima e da leggere a prescindere, diventa però un testo quasi indispensabile per tutti coloro che si avvicinano a Matera per la prima volta. Ma intanto il titolo: Cristo si è fermato a Eboli è un’affermazione, una triste presa di coscienza. Eboli era infatti l’ultimo paese della costa salernitana: il mare non c’è più, la strada finisce e il treno giunge al capolinea. Dopo, solo le desolate terre lucane, scontrose e selvatiche come chi le abita. E perché scomodare proprio Cristo? Perché chi vive in Lucania non può considerarsi ‘cristiano’, termine da leggersi nella sua accezione di uomo, o meglio, di umano. I cristiani sono quelli che stanno al di là del ‘confine’, prima di Eboli: a Matera, si vive con e alla stregua delle bestie e la redenzione – intesa come civiltà – dista parecchi chilometri.
Quando uscii dalla stazione – continua Luisa – mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città. [..] Dov’era la città? Matera non si vedeva. Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai a una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera [..] Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto colore grigiastro, senza segno di coltivazione, né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo scorreva un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca e impaludata fra i sassi del greto. Il fiume e il monte avevano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore. La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra.
Non credo che questo scorcio sia oggi molto diverso da come era allora: i rilievi aspri della Murgia, il muschio che, aggrappato alle rocce, insiste a dare un tocco di colore al paesaggio e le grotte, nere come denti cariati, che un tempo nascondevano briganti oppure diventavano ripari per pastori, case e chiese. Quella di Santa Maria di Idris la più bella: ricavata su di uno sperone roccioso del Monterrone, nei pressi di San Pietro Caveoso, è tra le chiese rupestri oggi più suggestive, non solo per gli interni ma per il panorama: uno scorcio unico sui sassi e sulla Gravina.
Riprendiamo a leggere, o a camminare.
La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se così quelle si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata; alcune sono anche belle, con qualche modesto ornato settecentesco. Queste facciate finte, per l’inclinazione della costiera, sorgono in basso a filo del monte, e in alto sporgono un poco: in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto.
Prima di scoprirla in autonomia, a Matera ho voluto fare una passeggiata guidata. E questo non certo perché sia difficile orientarsi, quanto piuttosto per sentire raccontare la città, per poter scorgere cose che, da sola, probabilmente non avrei notato. Così, ho potuto rendermi conto che sì, era proprio vero: quella su cui poggiavo i piedi era una strada ma anche il tetto di una casa e quello che mi arrivava alle ginocchia, sporco della fuliggine del tempo, era un comignolo.
E non solo. Ho visto grossi anelli di pietra sporgere dalle pareti di alcune case, anelli a cui si tendevano i fili per far asciugare il bucato o, in alternativa, si legavano i muli. Ho appreso che la strada dove oggi si trovano i migliori hotel della città una volta era quella in cui le donne svuotavano cantari pieni di piscio e che la parola tufo non ha la stessa accezione ovunque. Il tufo dei sassi non è il nobile tufo di Napoli, ma semplice calcarenite, una roccia friabile, bucherellata, che ben si prestava a essere scavata per creare i famosi ‘vuoti nel pieno’. Ha le sue origini nella compattazione del fondale marino e, nel Parco della Murgia, incastrata nel muro di una chiesa rupestre, ho individuato una conchiglia.
Ma torniamo ai Sassi:
Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l’interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette. Continua Luisa: Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie.
Cosí vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili, e non le scacciavano neppure con le mani. Visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria. […] Le donne, magre, con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi, mi salutavano gentili e sconsolate: a me pareva, in quel sole accecante, di esser capitata in mezzo a una città colpita dalla peste.
Lo spazio – poco, in un sasso – era organizzato su tre livelli: a terra le bestie, sulle sedie e sul letto gli uomini e, nell’aria, dondolanti in culle di fortuna appese al soffitto, i neonati. Per rendere meglio l’idea, oggi diverse case-grotta sono state trasformate in minuscoli musei. Arredate con oggetti autentici, permettono a uno spettatore fantasioso di immaginare la vita dell’epoca: un angolo cucina con utensili in ferro e rame, più in là un comò e un letto altissimo dove sotto, con tutta probabilità, ci si ficcavano capre o galline e, in un altro angolo della stanza, la stalla: un mucchio di paglia con un forcone e un asinello di cartapesta a grandezza naturale.
A dimostrare la fedeltà delle ricostruzioni, alcune immagini del tempo che fu: gli stessi utensili sporchi, lo stesso comò, lo stesso somaro, anzi, uno vero. Coperta da un mantellaccio, una bambina gettata sul letto: il volto, giovane ma già antico, è reso ancor più scarno dal bianco e nero. Quel che non si può percepire, né dalle foto né tanto meno dalla ricostruzione attuale è ciò che forse più avrebbe ferito i nostri sensi: l’umidità del sasso, pungente sotto le ossa, e il puzzo – il chiuso, lo stantio, la stalla – forte nel naso.
Uomini e bestie vivevano dunque in simbiosi: l’asino in particolare era un componente della famiglia a tutti gli effetti e pure prezioso, a dirla tutta. Il mondo umano e quello animale si sovrapponevano di continuo e, talvolta, arrivavano a fondersi, dando origine a miti e leggende di cui nessuno osava dubitare.
Ci sono molti esseri strani, che partecipano di una doppia natura. Una donna, una contadina di mezza età, maritata e con figli, e che non mostrava, a vederla, nulla di particolare, era figlia di una vacca. Cosí diceva tutto il paese, e lei stessa lo confermava […].
Non si distingue piú l’uomo dalla belva – sostiene Levi, riportando quanto appreso riguardo a fatidici uomini-lupo. Uscivano nelle notti d’inverno, per trovarsi con i loro fratelli, i lupi veri. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all’uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all’uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l’uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano battuto tre volte. Bisogna aspettare che si siano mutati, che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo, e anche la memoria di essere stati bestie.
La mente semplice del contadino lucano sembra essere terreno fertile per storielle e superstizioni di ogni genere: in giro per Matera ti è forse capitato di vedere statuine raffiguranti una specie di gnomo dal lungo copricapo rosso? Se sì, hai visto un monachicchio. Ma non uno vero, non temere. Dispettoso per natura, il monachicchio è lo spirito di un bimbo morto senza battesimo che si aggira(va) per strade e case tormentando il mal capitato di turno. L’unico modo per farlo smettere è fregargli il cappuccio: per riavere il suo cappuccio rosso senza cui non può vivere – racconta Levi, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro.
Ma non tutti gli spiriti sono maligni e bizzarri come i monachicchi. Ci sono anche degli spiriti buoni e protettori, degli angeli. Al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli. Uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola, e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono. Né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare. Ecco perché l’immondizia non si getta la notte, spiega la Giulia, governante dello scrittore torinese: Se io buttassi le spazzature attraverso la porta, potrei buttarle sul viso dell’angelo, che non si vede; l’angelo si offenderebbe, e non tornerebbe mai piú. Le porterò via domattina, dopo che l’angelo sarà partito, al sorger del sole.
Infine, ad alimentare questo immaginario già così vasto ci sono loro: i briganti. La guerra dei briganti è finita nel 1865 ma ha continuato a far parlare di sé per almeno un secolo. Indimenticabili le gesta di Ninco Nanco e della sua compagna, Maria ’a Pastora detta la Brigantessa che, bellissima, vestita da uomo, sempre a cavallo […], quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il cuore dal petto dei bersaglieri, gli porgeva il coltello. Ricorda Levi che non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti […] Istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi.
Tanto per il suo passato quanto per il folklore, Matera si conferma quindi una pagina di storia unica al mondo con, ahimè, sempre meno persone a raccontarla così come l’hanno vissuta. Uno degli ormai pochissimi anziani che hanno trascorso la giovinezza nei Sassi, l’abbiamo incontrato al termine della nostra visita guidata. Ha intonato per il gruppo una canzone dialettale che, insieme ad altri bambini, era solito sciorinare ai padroni presso cui era a servizio il giorno in cui veniva ucciso il maiale. Se fortunato, Eustachio sarebbe tornato al suo sasso con un po’ di sugna o addirittura con un pezzo di carne. Crescendo, avrebbe poi abbandonato quella grotta fredda, senza però dimenticarla mai.
Oggi, i Sassi, testimoni silenziosi di una vita indegna, sono diventati patrimonio Unesco e Cristo, proseguendo il suo viaggio, ha finalmente redento anche quest’angolo di mondo. Matera, per sempre privata di un tempo mai vissuto, è una delle città più belle che io abbia mai visto.