Addio 2020

Martina Franca, Val d'Itria
Pensieri da un mondo in quarantena #7

“Certamente ci sono stati anni peggiori nella storia del mondo, ma la maggior parte di noi, che siamo vivi oggi, non ha mai visto niente di simile. Bisognerebbe avere più di 100 anni per ricordare la devastazione della prima guerra mondiale e la pandemia di influenza spagnola del 1918. Circa 90 anni per avere un senso della privazione economica causata dalla Grande Depressione. Ed essere oltre gli 80 anni per avere un ricordo della seconda guerra mondiale e dei suoi orrori”.

Scrive così il Time, nota testata americana che, nel suo ultimo numero, non esita a definire il 2020 “the worst year ever”.

L’anno peggiore di sempre.

In un dicembre qualunque, questo sarebbe stato il momento dei bilanci, di riportare alla mente i trascorsi più belli, emozionanti o divertenti, di fare progetti concreti per il nuovo anno o di lasciarsi andare a qualche fantasia, che probabilmente non si sarebbe avverata ma chissà: in fondo, tutto ci sembrava possibile.

Non era nemmeno cominciato male, il 2020. Il capodanno a Muscat nell’accogliente terra d’Oman, la mezza maratona di fine febbraio… Era venerdì e faceva caldissimo: ho corso i 21 km tutti di fila, senza mai fermarmi perchè altrimenti avrei perso il ritmo e ceduto all’afa. Era venerdì, dicevo, e il martedì successivo avrei dovuto prendere l’aereo per un breve rientro in Italia. Nel mezzo, Codogno è stata chiusa e quel volo non l’ho mai preso.

Di lì a poco, sarebbe scattato un lockdown di oltre tre mesi, e avrei rimesso piede in Italia soltanto a luglio, con un volo di fortuna. All’arrivo la quarantena e poi, finalmente, un po’ di respiro durante l’estate. L’on the road al sud: Napoli, Matera, Bari. E poi il Trentino, anche col Nama.

Il virus era sempre lì ma, abbagliati dal sole, fingevamo di non vederlo. A ricordarcelo solo i media, divenuti monotematici da quasi un anno a questa parte. A fare notizia sono le non-notizie: il mese scorso, Mentana ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un video dell’aurora boreale in Norvegia. Tra i tanti commenti al post, uno dice ‘grazie direttore, abbiamo bisogno di normalità’. Normalità? Un tizio ha il coraggio di scrivere quel che penso: “normalità è portare il culo lì e ammirare di persona”.

Gli ho messo un cuore.

Perché del 2020, forse ancor più del virus, mi spaventa quell’assurdo concetto di new normal che si è fatto strada. Ma che vuol dire ‘new’ normal? No perché, non so te, ma io non ci trovo nulla di normale nell’attendere il bollettino dei morti ogni sera, nell’andare in giro mascherati, nel non poter abbracciare un amico, o prendere un caffè senza la paura che la signora vicino starnutisca. Non ci vedo niente di normale nel non poter andare a un concerto, in un museo, a teatro o a scuola. Niente di normale in un mondo con i confini chiusi.

Ah ma il Covid ci renderà migliori, si diceva in primavera. Davvero? Davvero avevamo bisogno di una pandemia per capire l’importanza di un abbraccio, chi sono le persone a cui desideriamo darlo sul serio, o quanto eravamo fortunati a fare la vita che facevamo? Se qualcuno si sente migliore buon per lui, io non sono stata così brava. Anzi, con un po’ di presunzione, posso dire che mi andavo più che bene com’ero prima. Il coronavirus non mi ha aggiunto nulla, mi ha resa invece più preoccupata, sola, arrabbiata soprattutto.

L’inizio del 2021 non lo dimenticherò. Perchè per la prima volta, non si è festeggiato l’arrivo del nuovo anno: si è celebrata la fine del vecchio. Non ho fatto il countdown: a parte mio marito, non c’erano persone con cui gridare il conto alla rovescia. In TV c’erano Amadeus e Gianni Morandi, non in una piazza affollata ma in uno studio senza pubblico, a fingere allegria con applausi di repertorio. Mancavano meno di dieci minuti e sono uscita in balcone. Aveva nevicato un bel po’ il giorno prima e faceva un freddo becco, ma me ne stavo lì, senza piumino. Non era ancora scattata la mezzanotte e già i botti partivano. Dal mio ottavo piano ero abbastanza in alto da vedere le scie, le scintille, le luci se guardavo poco più su e di vedere la strada imbiancata, spettrale, completamente deserta più sotto. Poi le 12. Uno scoppio dopo l’altro, te vai finalmente. Finalmente muori, 2020. Non dimenticherò quel contrasto, quella strada così silenziosa e quel cielo così rumoroso. Non una voce, solo botti. Ho pianto, a capodanno. Ho pianto per tutto quello che è stato, ma soprattutto per quello che non è stato.

Al di là del Covid, un altro evento di questo annus horribilis mi ha toccata particolarmente. “Brexit: è la fine del sogno di cambiare vita a Londra“, titola un quotidiano.

Da oggi, per andare in UK servirà il passaporto, e questo è il male minore: il Regno Unito ha sbarrato l’ingresso ai giovani europei, uscendo dal programma Erasmus e consentendo il trasferimento solo a chi ha già un (buon) contratto di lavoro in mano (appartenente cioè a una fascia di reddito medio-alta: camerieri, addio).

In altre parole, non sarà più possibile partire con una valigia, quattro sogni e la Oyster card da ricaricare, non sarà più possibile appoggiarsi sul divano di un’amica o in un ostello da quattro soldi per cercare lavoro sul posto.

Per me, che a Londra devo così tanto – ma così TANTO -, apprendere queste notizie è fonte di grande tristezza, è la fine di un’epoca. Quando l’Italia dei co.co.co. e degli stage infiniti e sottopagati mi ha chiuso le porte in faccia, è Londra che me le ha aperte. E’ stato un direttore che amava scommettere sui giovani e che considerava la padronanza delle lingue straniere un patrimonio importante: oltre ai colleghi British, in ufficio c’ero io a rappresentare Italia e Spagna, Thomas (francese), Arno (olandese), Milla (svedese). Per approdare a quella posizione mi sono serviti circa tre mesi di colloqui infruttuosi: impensabile – per un primo impiego, per di più quasi senza esperienza – fare job hunting dall’Italia.

A Londra ho davvero trovato fortuna. In quei quattro anni, la città mi ha regalato una professione, tanta fiducia in me stessa e infine, ma solo cronologicamente, l’incontro con mio marito. Insomma, senza quella opportunità la mia vita avrebbe preso una direzione che non saprei immaginare più diversa da quella odierna. Una direzione che, fino allo scoppio del Covid, amavo tanto, con tutti i suoi alti e bassi.

Non faccio parte di quella esigua percentuale di individui che in futuro assoceranno, nonostante tutto, il 2020 a qualcosa di positivo: un matrimonio o un figlio, per esempio. E grazie a Dio, non sono nemmeno tra coloro che hanno pianto una delle oltre 70.000 vittime. Faccio parte di quella stragrande maggioranza di persone che il 2020 l’hanno vissuto ben poco, perchè chiuse in casa, perchè private della possibilità di condividere esperienze, sensazioni. Il 2020, per me e credo per tanti, è stato un non-anno, un periodo bianco latte come il mondo cieco di Saramago. Un lasso di tempo in cui fondamentalmente non è successo nulla, ma che, per una tragica ironia, non dimenticheremo mai.

In tempi non sospetti ti avrei augurato un 2021 strepitoso, fantastico, pieno di cose belle. Oggi invece l’augurio più bello che mi sento di fare è che il prossimo possa essere semplicemente un anno normale. Di quella normalità che conosciamo bene, l’unica possibile.

Intanto, proprio oggi è il V-Day.
Vola alto, 2021.

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