Se pensi a una chiesa, quali stili ti vengono in mente? Forse il gotico di Notre-Dame o del Duomo di Milano, il bel rinascimento fiorentino, o addirittura il futurismo della cattedrale di Rio de Janeiro…
E se invece ti dicessi rupestre? Oggi scendiamo nel Parco della Murgia Materana, un’estensione verde e selvaggia di oltre 8000 ettari che, dalla Basilicata, arriva fino al confine con la Puglia. Vigilato da un piccolo rapace – il falco grillaio – che tanto ama il sud Italia, il parco è un luogo aspro, pieno di grotte spesso difficilmente accessibili perché situate sulle pendici scoscese della Gravina. Nonostante ciò, quelle grotte hanno conosciuto l’insediamento umano sin dal Paleolitico e, anzi, le hanno vissute un po’ tutte le epoche: fino a poche decine di anni fa ancora davano riparo all’uomo, alle sue bestie.
Proprio come i Sassi di Matera, anche gli antri della Murgia sono fatti di roccia tenera, quella comunemente chiamata tufo ma che tufo non è: si tratta di calcarenite, una pietra malleabile che ben si adatta ad essere scavata, a creare i famosi vuoti nel pieno ben raccontati da Carlo Levi. Fu così che nacquero veri e propri villaggi rupestri – tra cui San Nicola all’Ofra e il Villaggio Saraceno, tutt’ora visitabili – ciascuno munito di un cimitero, di ‘iazzi’ e di caprili, ossia addiacci per mucche e ovini. A partire dall’alto medioevo poi, un’altra cosa non mancava mai: una chiesa.
Le chiese rupestri sono luoghi di culto antichissimi, che cominciarono a fiorire una dopo l’altra grazie all’arrivo di comunità monastiche in fuga dall’Oriente, Turchia soprattutto. Realizzate all’interno di grotte naturali opportunamente scavate, non si privavano però degli elementi architettonici basilari – colonne, absidi, transetti, rozzi capitelli e, in qualche caso, addirittura due o tre navate – e, soprattutto, di affreschi e decori. Sono proprio le immagini sulle pareti il prodigio del rupestre: disegni dal tratto sorprendentemente moderno, preciso, vivace, che seguono il neutro profilo della roccia e lo colorano di Eden fioriti, lo popolano di santi a grandezza d’uomo e madonne vivide ed espressive. Un’iconografia insomma ricchissima, che unisce la tradizione bizantina a quella benedettina.
Oltre ai tanti esempi presenti a Matera – due su tutti, Santa Maria di Idris e Santa Lucia alle Malve – vale la pena vedere alcune chiese anche nel parco della Murgia, situato oltre la Gravina, di rimpetto ai Sassi: qui, se ne contano oltre 150.
Tra quelle che ho visitato c’è il Santuario di Santa Maria della Palomba, una struttura che, a dir la verità, è semi-rupestre in quanto l’edificio attuale ha inglobato elementi della chiesa più antica. Tra gli affreschi sulla roccia, spiccano quello della Madonna affiancata dalla colomba dello Spirito Santo, una rappresentazione della strage degli innocenti e una crocifissione sotto gli occhi dei santi Nicola e Vito, protettore dei pastori della Murgia il primo e dei contadini il secondo. Tra un affresco e l’altro, così come sui muri esterni della chiesa, con un po’ di attenzione è facile individuare una serie di graffiti: riportano i nomi e le date dei pellegrini che hanno visitato il santuario nei secoli. Se cerchi bene, vedrai anche una conchiglia fossile: racconta storie di fondali marini, in un’epoca troppo lontana per poterla immaginare.
Nonostante nascano come luoghi di preghiera, molte chiese-grotte non hanno mai perso la destinazione d’uso originaria: durante un acquazzone o in una notte particolarmente fredda, diventavano un rifugio per i pastori e il loro gregge. Ed è proprio grazie a un pastore che, negli anni ’60, è stata (ri)scoperta la più bella delle rupestri, la più spettacolare. Datata tra l’VIII e il IX secolo, chiamata prima Cripta dei Cento Santi e ribattezzata in seguito Cripta del Peccato Originale, è conosciuta come la Sistina del rupestre: i suoi affreschi sono qualcosa di splendido. Tre nicchie dedicate agli Apostoli e alla Vergine, un corposo ciclo pittorico illustrativo della Genesi sulla parete di fondo e, qua e là, tanti fiori, rossi per lo più. A corredo di ogni immagine, un’epigrafe in latino. L’artista che l’ha dipinta è sconosciuto ovviamente, ma viene affettuosamente chiamato il Pittore dei Fiori di Matera: probabilmente un benedettino benestante, per creare i suoi colori – intensi come non mai – ha utilizzato materiali del posto e altri ben più costosi provenienti dall’Oriente, come la polvere di lapislazzuli.
Una curiosità: l’affresco che riproduce la cacciata dall’Eden è uno dei pochissimi al mondo a riportare come frutto del peccato un fico e non una mela (stessa cosa fa la Cappella Sistina!). Ma perché la mela allora? Pare sia un clamoroso refuso storico: in latino, infatti, il termine pomum non indicava solo la mela ma, più genericamente, qualunque tipo di frutto, da cui l’equivoco (il che spiegherebbe anche la presenza delle foglie di fico).
Liberare la grotta da secoli di muschi e batteri è stata un’impresa ardua e costosa e, per questo, oggi si cerca di preservarne al meglio la delicata natura. La visita alla Cripta è consentita solo su prenotazione e in gruppi molto piccoli: una volta all’interno, i visitatori sono invitati a sedersi sulle rocce, mentre la guida illustrerà, illuminandoli di volta in volta con un faretto, i soggetti dipinti. Non si possono assolutamente fare foto all’interno, ma puoi vedere tante belle immagini sul sito ufficiale, lo stesso su cui prenotare anche la tua visita. La Cripta del Peccato Originale dista una ventina di minuti d’auto da Matera.
Un’ultima cosa! Se hai intenzione di visitare le chiese del Parco della Murgia o anche solo di fare una passeggiata al suo interno, fai in modo di trattenerti fino al tramonto. Scelto anche da Mel Gibson per il suo The Passion of Christ, il parco offre alcune delle vedute più suggestive sui Sassi. Aspetta che il cielo si colori di rosa e poi, poco a poco l’accendersi delle luci:
la chiamano “seconda Betlemme” e, quando è illuminata, Matera sembra davvero un presepe.