La notte in cui gli Azzurri sono diventati Campioni d’Europa ho dormito a Venezia. La mia stanza era al terzo piano di un hotel senza ascensore; la carta da parati damascata, un grosso specchio barocco dalla cornice dorata, il quadro di una damina in maschera e, alla finestra, questa vista:
Dopo la vittoria ai rigori, il Canal Grande si è riempito in poco tempo. Il motoscafo di quattro giovani che sventolavano il tricolore al grido di po-poro-po-po-pooo ha dato il via a una sfilata improvvisata di imbarcazioni più o meno grandi e rumorose che derapavano (si dice così anche in acqua?) sollevando schiuma e schizzi. Alcuni palazzi si sono illuminati di verde bianco e rosso e soltanto più tardi si è formato un capannello di gente ai piedi del Ponte di Rialto.
Mi sono affacciata a quella finestra per quattro giorni e ho osservato la città in ore diverse. Oltre alle gondole, ho visto scivolare sul canale le imbarcazioni più varie, certo meno poetiche ma non per questo meno singolari: scafi per lo smaltimento dei rifiuti, la flotta della polizia. Persino l’idroambulanza che, con quella a quattro ruote, ha in comune la sirena.
Niente clacson, niente gente imbottigliata nel traffico o annoiata dentro ai tram. Niente Glovo, gli omini dell’UPS che, in barba alla logistica, caricano le scatole sui portapacchi e le spingono su e giù per i ponti. La città dell’acqua alta è impermeabile alle usanze del resto del mondo e ha un modo di vivere – persino di festeggiare – tutto suo. Ma c’è di più: ha anche un suo lessico. Passeggiando per Venezia, leggendo indicazioni, menù e prestando orecchio a stralci di conversazioni… bhè, può capitare di sentirsi un po’ perplessi.
Prendi la cartina, ad esempio.
Al posto dei quartieri, ci sono i sestieri: il centro storico non è tagliato in quattro da due vie perpendicolari, ma diviso in zone, ciascuna delle quali è un sesto della città. A Venezia non trovi le vie ma le calli (le vie sono solo due: Via Garibaldi e via XXII Marzo); non ci sono incroci ma crosere; niente piazze e piazzette ma campi e campielli (di piazza ce n’è una sola ed è San Marco). Non ci sono corsi, vicoli o strade ma ci sono rami, rughe e salizade.
A complicare le cose ci si mettono poi i rii terà, ossia i canali interrati, un tempo corsi d’acqua e oggi calli; i sotopòrteghi, passaggi pedonali coperti scavati all’interno di edifici, alcuni così bassi che se alzi le braccia tocchi il soffitto con le dita. Ci sono le marzerie, strade in cui nel ‘700 si potevano acquistare stoffe e vestiti pregiati e che oggi vendono di tutto un po’, paccottiglia per turisti in primis, e le fondamenta – a volte chiamate rive – ossia quelle calli che hanno le case da un lato e il canale dall’altro. Che poi, canale è un termine fin troppo generico: c’è il Canal Grande e quello della Giudecca; gli altri sono rii o dàrsene.
E i numeri civici, ci hai mai fatto caso? Non ricominciano da 1 a ogni strada – pardon, calle – ma contano l’intero sestiere: in quello di Castello ad esempio, si arriva al civico 6828.
Ma non limitiamoci alla toponomastica: la Serenissima ha tutta una serie di elementi architettonici propri, peculiari quanto le loro denominazioni. I nomi delle calli, ad esempio, sono dipinti sui nissioeti – letteralmente, lenzuolini. Che, attenzione, non sono cartelli ma veri e propri affreschi; si tratta di rettangoli bianchi dipinti a mano sui muri delle case, sui quali, sempre a mano, è scritta l’indicazione di turno: Ponte del Parucheta, Al vaporetto, Ramo de Le Oche etc.
Se i nissioeti sono bene in vista, più nascoste sono invece le pissotte, colate di malta che riempiono gli angoli delle calli, spesso quelli più bui o nascosti. Se conosci un po’ Venezia, sai che è una specie di labirinto tra passaggi stretti e vicoli ciechi che, al più, sboccano in acqua o in una corte chiusa. Immagina di percorrere queste stesse strada secoli fa, di notte, senza illuminazione: di certo non mancavano postazioni nelle quali i malviventi potevano tendere agguati a un passante. Ecco dunque il perché delle pissotte: colando la malta in un angolo, esso diventava inutilizzabile e la strada più sicura. Ma non è tutto; come avrai intuito dal nome, le pissotte hanno anche un altro scopo. Inutile dire che i cantoni più reconditi sono anche i più ricercati per fare pipì, ma che si provi a urinare su di un piano inclinato! Gli schizzi rimbalzeranno contro il ‘bisognoso’, dissuadendolo così dal liberarsi in strada.
Altra parola ed elemento architettonico imprescindibile in laguna sono le vere. Senza addentrarci in questioni idrauliche, ti basti sapere che le vere costituivano un tempo l’imbocco dei pozzi; erano cioè il sostegno delle carrucole con cui i veneziani attingevano l’acqua. In città ne trovi tantissime e di diversa foggia; alcune sono state ricavate da capitelli romani e altre decorate con fregi più o meno fantasiosi, quali leoni, foglie, frutta.
E come non citare i masegni, i blocchi di pietra intagliata che caratterizzano la pavimentazione di Venezia. Dove poggiano? Se alcune teorie vogliono la Serenissima adagiata su strati di fango, legno e sabbia, c’è anche chi avanza ipotesi più fiabesche, che vedono la città costruita su di una sorta di foresta a testa in giù. Uno dei gioielli più preziosi del mondo sarebbe dunque sorretto da centinaia e centinaia di pali di legno – olmi, querce, roveri, abeti, larici – conficcati da secoli nel fondale salmastro. Entrambe le versioni giustificano comunque l’aspetto ‘mobile’ della città: case e campanili non propriamente dritti sono infatti frutto dei movimenti minimi ma perpetui della laguna.
Ma torniamo alle pietre. Alcuni masegni – tutti i veneziani lo sanno – non vanno calpestati, pena essere perseguitati dalla sfortuna. Il più famigerato è quello rosso del sotopòrtego di Corte Nova, sul quale nel 1630, si fermò nientemeno che la Peste. A farla inghiottire dal terreno, liberando così la città dal morbo, fu la Madonna, alla quale il sotopòrtego è oggi consacrato. Irrimediabilmente macchiato dalla peste, quel masegno si è tinto di vermiglio e guai a poggiarci sopra il piede!
Altre pietre famose, e per tutt’altra ragione, sono invece le pietre d’inciampo. Non sono masegni nè una particolarità esclusiva di Venezia, ma mi piace ricordarle comunque. Si tratta di pietre commemorative, depositate in memoria dei cittadini deportati nei campi di sterminio. Su ciascuna di esse è scritto il nome della vittima, la data di nascita, la data dell’arresto e, se conosciuti, luogo e data di scomparsa. A Venezia ce ne sono tantissime, per lo più nel sestiere di Cannaregio dove si trova il ghetto ebraico, ma non solo.
E il cibo?
Se in tutta Italia si fa l’aperitivo o, al più, l’apericena (termine che odio), a Venezia si fa il giro dei bacari. Il bàcaro, con l’accento sulla prima a, è un’osteria tradizionale, anche se, in dialetto veneziano mi pare di aver capito che ‘bacaro’ sia sinonimo di baldoria, di festa. Definito il contesto, vediamo che si fa. Innanzitutto si beve: una birretta, uno spritz e… n’ombra. Che altro non è che un bicchiere, ma di vino, naturalmente. Perché si chiami ombra non è chiaro; forse perché un tempo si usava bere all’ombra del Campanile di San Marco?
Insieme all’ombra, il cameriere ci porta i cicheti (equivalente di stuzzichini? Tapas? Bocconcini?), tra cui spiccano baccalà mantecato, seppioline ai ferri, polpette, ma anche polenta e schìe, masanete e moeche, sardele in saor, folpi in umido, marsioni e moi. Che tradotti diventano: gamberetti minuscoli, tipici della laguna; femmine del granchio e granchi molli (ossia in fase di muta) cucinati ahimè vivi ma di una bontà senza pari; sarde fritte lasciate a marinare in un macero di vino, aceto e cipolle e arricchite con pinoli e uva sultanina; polipetti piccini, tipo moscardini; pesci di laguna, in questo caso ghiozzi e moli. A proposito di pesci, se vuoi vedere altre specie tipiche della zona, fai un salto al mercato del Rialto, proprio dietro al Ponte; troverai un sacco di bancarelle. Prima di entrare, soffermati sull’antica insegna affissa sul muro delle Logge, che riporta – come stabilite sotto il Doge – le lunghezze minime che i pesci dovevano avere per essere venduti: sardelle 7 cm, branzino, rombo e orata 12, peocio 3 (e il peocio è la cozza).
Al ristorante le cose vanno meglio, anche se potresti avere qualche esitazione di fronte ai bigoli in salsa (una pasta lunga e spessa, preparata con acciughe e cipolle), agli scampi in busera (la busera è una pentola), ai risi e bisi (riso e piselli) e al figà a la venessiana (mi raccomando l’accento), ossia fegato di vitello cucinato con cipolle e aceto.
Sebbene tante parole Venezia le tenga gelosamente per sé, tante altre le ha invece regalate al mondo:
Il più tradizionale saluto italiano – ciao – altro non è che la contrazione di “sciavo vostro” (“schiavo vostro”), formula in voga nella Serenissima a partire dall’ottocento. I pantaloni sono le lunghe calze indossate da una delle tante maschere veneziane della commedia dell’arte, chiamato non a caso ‘Pantalon’. E ancora, è proprio in laguna che è nato il termine ghetto, insieme al primo ghetto d’Europa. Era il 1300 e fu a Venezia che si insediò un folto gruppo di ebrei, in un’area allora ricca di fonderie. ‘Ghetto’ deriva appunto dal verbo ‘gettare’ – géto in veneziano.
Il carpaccio è invece un termine (e un piatto) partorito dal genio del signor Cipriani, fondatore dell’Harry’s Bar, uno dei locali più iconici e costosi della città. Già inventore del Bellini – cocktail a base di prosecco e polpa di pesca – il Cipriani consegnò al mondo questa pietanza tutto sommato semplice ma di gran gusto alla quale, per il suo colore vivido, attribuì il nome del pittore veneziano Vittore Carpaccio.
Infine, le carampane. Se oggi con questo termine si sottendono anziane inopportune e un po’ tocche, un tempo la carampana altro non era che una donna di malaffare, sguaiata e volgare (contrapposta alla cortigiana, prostituta di lusso). La zona tra Santa Croce e San Polo, dove ancora oggi si trova l’emblematico Ponte delle Tette, è stata a lungo tempo il quartiere a luci rosse di Venezia e Ca’ Rampani era solo una delle tante case chiuse della città.
Insomma, se a Venezia il solito clichè impone di buttare via la cartina, io ti consiglio almeno di munirti di un piccolo glossario. E se sei nel sestiere di Dorsoduro, non dimenticarti di visitare lo squero*, ok?
* Tipico cantiere dove si costruiscono e riparano le gondole. Tra i pochissimi ancora in funzione in città (e dunque nel mondo).