Chiusa in un ovale in seppia, c’è una donna bellissima, giovane e un po’ malinconica, i capelli morbidi. Riposa accanto a una lapide impolverata che manda lo sguardo vispo di un signore di mezza età: porta i baffi alla moda del re, ben impomatati. Un angelo marmoreo dalle ali spiegate veglia con amore il ritratto di un bimbo e il peluche dalle orecchie lunghe – un coniglio probabilmente, o forse un cagnolino – che qualcuno vi ha lasciato accanto. Pochi metri più in là, la tomba di un reduce garibaldino e, appena dopo, un figuro altissimo, il volto ricoperto da un velo di pietra. E’ un angelo della morte e incute po’ di timore.
Fondato nel 1866, il cimitero monumentale di Milano è una delle perle del capoluogo lombardo, nonché tappa apprezzatissima dagli amanti dell’arte funeraria. Ma non temere, questo non sarà un post macabro. Perchè al monumentale non ho trovato le atmosfere cupe e decadenti che contraddistinguono (e rendono bellissimo) il parigino Père-Lachaise. Questo è invece un sito arioso, profumato dai tigli, in cui si può leggere – grazie alle maestose edicole che lo punteggiano – un emozionante tributo non solo alle singole famiglie ma anche alla città stessa.
Che Milan, si sa, l’è semper un gran Milan.
Famedio e cappelle di rilievo
Entra nel Famedio, o Pantheon degli Uomini Illustri. E’ sotto una cupola cobalto e oro – il richiamo è quello a una notte stellata – che riposano i ‘grandi’, quei personaggi che, milanesi o meno, hanno in qualche modo legato il proprio nome al capoluogo lombardo. Alcuni di essi sono tumulati qui: Alessandro Manzoni, le cui spoglie sono custodite in una grande arca proprio al centro della costruzione, ma anche Salvatore Quasimodo, Giorgio Gaber, Dario Fo, Carla Fracci. Altri, sepolti invece nelle tombe di famiglia, portano il loro nome impresso sul muro dei cittadini benemeriti e distinti nella storia della patria; tra loro, Gianni Versace, Mariangela Melato, Claudio Abbado, Mike Bongiorno, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, Gae Aulenti, Maria Montessori, Umberto Eco, Ottavio Missoni…
E’ però camminando lungo i viali che potrai cogliere l’aura di regalità che caratterizza il cimitero. A balzare all’occhio sono le grandi edicole, giganteschi mausolei che le famiglie più abbienti hanno commissionato nei secoli a scultori e artisti di grido – Lucio Fontana, Giannino Castiglioni, Adolfo Wildt – tanto che alcuni non esitano ad affibbiare al Monumentale l’etichetta di ‘spazio espositivo’. Del resto, come non meravigliarsi di fronte alla torre di babele della famiglia Bernocchi, alla solennità della Besenzanica, all’imponenza dell’edicola Falck o al gigantesco gruppo bronzeo che orna il sepolcro della famiglia Campari, una rappresentazione a grandezza naturale dell’Ultima Cena (soprannominata – va detto per smorzare un po’ i toni – “l’ultimo aperitivo”). Sono insomma le tombe di cui tutti parlano, quelle che non si possono non notare.
La Spoon River meneghina
Però, a me, ne sono piaciute più altre. Hai presente Spoon River? Brevemente: utilizzando una tecnica narrativa molto particolare – l’epitaffio funebre come “qualcosa di meno della poesia e di più della prosa” – lo statunitense Edgar Lee Masters ha riunito in un’antologia di circa 250 componimenti la storia di un paesello, l’immaginario Spoon River. Scorrendo quanto scritto sulle lapidi, il lettore viene a conoscenza delle dinamiche che scandivano la vita della comunità, attraverso fatti e illazioni narrati con toni diversi: struggenti, irriverenti, intriganti, alcuni persino divertenti. Perché le tombe, luogo muto per eccellenza, hanno in realtà molto da raccontare. Ed ecco perché, invece che al grandeur delle edicole, mi sono appassionata ad altri estinti, ad altre storie.
Storie d’amore
Simbolo di affetto e protezione, l’angelo è un tema ricorrente nell’architettura funeraria. C’è però chi il suo angelo custode ha avuto la fortuna di trovarlo in vita ed è lui (o lei) che ha voluto scolpire nel marmo oltre che nel cuore. Diverse tombe raccontano la storia di coppie unite fino all’ultimo respiro. E’ il caso del monumento della famiglia Rossi e di quello, molto simile, dei Moroni-Scarneo: distesi sul letto, i coniugi intrecciano le loro dita per sempre. E poi c’è la bellissima scultura dei Beretta-Vittadini, che immortala un’anziana coppia nel momento dell’estremo saluto; lui, prossimo all’addio, guarda con amore lei che, china sul suo letto, gli stringe la mano un’ultima volta.
Non è da tutti, però, arrivare insieme ad un’età così avanzata: lo sanno bene i protagonisti dell’ ‘Ultimo bacio’, monumento della famiglia Volonté-Vezzoli. Lei, giovane popolana, un fazzoletto annodato sulla testa, si china a poggiare le labbra su quelle di lui, morente. Tutt’ora enigmatica è invece la dipartita di Maria Berruccini, nota semplicemente come ‘la fidanzatina di Milano’. Sembra dormire, abbandonata e scomposta, estremamente sensuale sul suo giaciglio di pietra. Ma non è la statua ad attirare l’attenzione del visitatore, bensì l’epigrafe: “Non dire ad alcuno perché sono morta”, recita. Forse un suicidio per amore?
Storie di bimbi
Considerando l’elevato tasso di mortalità infantile tra otto e novecento, non stupisce l’alto numero di corpicini sepolti qui. Immortalati per sempre in unico gesto, le braccine tese verso i genitori, un sorriso appena accennato o un inizio di corsa, questi bimbi di pietra sono tra le icone più toccanti e al tempo stesso dolci del Monumentale.
C’è Adriana, figlia dell’imprenditore Ettore Elisi, protagonista di un’opera commovente e bellissima, intitolata ‘Gigli del cielo’. In una nicchia d’oro – siamo nell’epoca del liberty – due figure scolpite nel marmo candido si avvolgono in un abbraccio: l’angelo dai capelli lunghi sta per condurre in cielo la bimba ma, dalla sua espressione, traspare riluttanza, dolore per una morte tanto precoce. La stessa sorte toccherà a Jeanne, 8 anni: gli occhi puntati sulla madre di marmo, inginocchiata poco distante, Jeanne viene portata via da un angelo che, anche in questo caso, volge lo sguardo per non assistere allo strazio della scena.
C’è Elena, figlia di Giuseppe Mengoni, l’architetto progettista della Galleria Vittorio Emanuele II. A quest’uomo schivo e sfuggente, forse suicida, è stato eretto un monumento funebre senza fronzoli, che lo ritrae con l’espressione di sempre, severa e un po’ malinconica. Quando, tre anni dopo la sua morte, la piccola Elena lo raggiunge, alla statua viene aggiunta quella della fanciulla, raffigurata nell’atto di porgergli un mazzo di fiori. La cosa triste, è che il padre non potrà mai guardarla negli occhi: come non si accorgesse di lei, mantiene lo sguardo fisso dinanzi a sè. E poi ci sono Amelia, l’espressione dolce e i fiori nel grembiulino, Sergino col suo pallone sotto braccio, Giuseppina, di soli 3 anni, il cui viso tradisce l’arrabbiatura più che il dolore, il broncio più che il pianto. E i tanti e tanti bambini rimasti orfani troppo presto, che guardano con amore l’ultimo ritratto dei genitori.
Storie di uomini
Umberto Fabè faceva il pilota. Aveva 24 anni quando gli hanno tarpato le ali. Sulla sua tomba c’è un nudo maschile che imbraccia una grossa elica; sembra pronto a spiccare il volo ma, a trattenerlo, ci sono le spire di una medusa – gli occhi irati e spaventosi – che si avvinghiano ai suoi piedi. Sul basamento, una citazione di D’Annunzio, anch’egli aviatore: Non cola ma vola/ Non cade ma s’alza. Sempre in un incidente aereo è mancato il giovane Marino Omodeo, ingegnere. Sulla sua tomba si trova una delle statue secondo me più belle e delicate del cimitero: una giovane dolente con una corona di fiori in mano. La sua acconciatura e il suo vestito – tutto pizzi e balze – raccontano tra l’altro il gusto per la moda dell’epoca (la vedi non nel blocco fotografico qui sotto, ma nel successivo).
Si baciano sulla bocca invece i due fratelli dell’edicola Izar. Li domina la foto del padre e li guarda con sentimento la madre che, accovacciata in una statua di bronzo, ha impresso sul viso un dolore profondo, rassegnato; ha dovuto sopportare ben tre lutti: prima il marito, scomparso a 39 anni, e poi i figli, a 21 e 22 anni. Quella di Giovanni Maccia è invece una delle nicchie più antiche del cimitero (foto di copertina). Risalente al 1869, raffigura una donna nell’atto di avvicinarsi a un portone, chiaro simbolo del passaggio all’aldilà ma non solo. Maccia è stato infatti il fondatore di un’opera pia volta ad accogliere tutte le ragazze rinnegate dalla propria famiglia perché rimaste incinta al di fuori del matrimonio: la sua porta era sempre aperta.
Gaetano Pini e Paolo Gorini furono invece due medici che conseguirono, dice l’epitaffio del primo, “la vittoria della cremazione”. Pensa che è proprio al Monumentale di Milano che – nella seconda metà dell’800, quando la chiesa ancora osteggiava tali pratiche – venne inaugurato il primo forno crematorio d’Europa. Utilizzato sino agli anni ’70, il forno è visibile ancora oggi ed è situato in fondo al camposanto, nell’area che ospita le urne cinerarie. Sovrastato dalla scritta “PVLVIS ES ET IN PULVEREM REVERTERIS ” (Polvere sei e polvere ritornerai), giace oggi in stato di abbandono ma, a suo tempo, in epoca dunque di forti epidemie, ha contribuito a limitare almeno in parte le possibili infezioni derivanti dalla decomposizione dei cadaveri.
Storie di donne
Isabella Airoldi Casati era una contessina morta di parto intorno ai vent’anni d’età. Adagiata sul letto, una schiera di angeli alle spalle, sembra fare un bel sogno, tanto il suo volto è dolce e sereno. Soltanto il crocifisso poggiato sul suo petto ci ricorda che la giovane non si risveglierà. A Isabella si ispira il monumento della famiglia Brivio, con la differenza, però, che Zaira ha un’aria sofferente. Accanto a lei, un angelo si copre gli occhi affranto, forse per il gesto che è tenuto a compiere, portarla via con sé. Fino a poco tempo fa, sul basamento della tomba c’era una foto di Zaira: un’immagine sorprendente perché ritraeva la donna così come scolpita nel marmo. Purtroppo qualcuno l’ha rubata e oggi, al suo posto, non c’è che uno spazio bianco. La puoi comunque vedere qui.
Jole Ranza, mancata a soli diciannove anni, è stata invece tra le vittime dell’influenza spagnola. La sua è forse la scultura più macabra del cimitero: si intitola “Avida Mors” e raffigura la giovane – il seno nudo, le vesti lacere – nell’atto di sfuggire alle mani scheletriche che la ghermiscono, impedendole la fuga. L’epigrafe, “Forse beata sei, ma pur chi mira seco pensando, al tuo destin sospira“, non è meno evocativa della scultura.
E infine c’è Ada. Quasi coetanea di Jole, i capelli lunghi e una rosa tra i capelli, sembra una figlia dei fiori ma è passata a miglior vita nel 1916. Per la precisione, il 10 novembre 1916, data che ricordano in tanti perché legata a un fatto di cronaca nera: il disastro della Bovisa. Quella mattina, le cantine della sede italiana di un’azienda di colle, la Boston Blanching Company, esplodono a causa di un guasto a una tubatura: sessantamila litri di benzina fanno saltare in aria l’edificio e quanti stavano al suo interno, tra cui Ada Ranzini. Sulla sua lapide, la scritta: “Più vivo della fiamma che arse il mio corpo, è intorno a voi diletti il mio spirito custode pregando rassegnazione”.
Queste sono solo alcune delle storie del Monumentale, quelle che ho scovato documentandomi qua e là. Spero che questo post non ti sia sembrato troppo tetro né, soprattutto, che ti abbia intristito. Tanti sono i visitatori che ancora oggi depongono un fiore sulle tombe dei più piccoli o della sfortunata Maria ad esempio e, il mio, è un modo di ricordarli come un altro.
Il Cimitero Monumentale di Milano si trova in zona Isola, poco distante dal futurismo di Piazza Gae Aulenti e del Bosco Verticale. E’ aperto tutti i giorni tranne il lunedì e l’entrata è gratuita. Siccome è un’area piuttosto vasta (circa 250.000 mq di estensione, distribuiti tra cimitero cattolico, acattolico e israelita), metti in conto di trascorrevi circa due ore. Spesso, vengono organizzate visite guidate anche a tema; ecco il sito ufficiale per cercare quelle in programma.