Henry James diceva che Venezia è non tanto una città, quanto piuttosto una sorta di ‘interno’. Tutta corridoi e salotti. A dare questa sensazione è certo la bellezza delle sue calli – splendide vie d’accesso a campi e campielli arredati con gusto – ma anche il fatto che, delimitata da mura invisibili, Venezia, al contrario di qualsivoglia città, non possa espandersi o crescere.
Si è sempre dentro dunque, anche quando si sta all’aperto. Nulla di soffocante però, anzi. Accomodarsi tra le braccia della Serenissima è un piacere, ma ad una condizione: non bisogna essere in troppi. Perché Venezia è un ecosistema fragile, un museo piccolo e prezioso costretto a reggere una calca da Times Square. Da qui la proposta di cui si discute ormai da tempo: e se Venezia diventasse davvero una città a numero chiuso?
Privata di una larga fetta di visitatori stranieri, l’estate scorsa la Serenissima non si poteva certo definire deserta ma, di sicuro, per un turista in alta stagione, era più che accettabile. Anzi, diciamola tutta: non è stato affatto male fare appena un quarto d’ora di coda per entrare nella Basilica di San Marco o trovare un tavolo da Fiore con facilità. E forse sì, un afflusso turistico regolato consentirebbe di (ri)scoprire la città a un passo più lento, intimo, permetterebbe di viverne il quotidiano e immaginarla – con più facilità – con tutti i crismi di un tempo.
Prendi il Ponte dell’Accademia, ad esempio, che unisce San Marco a Dorsoduro. Offre uno degli scorci più belli e poetici sul Canal Grande e spesso, per goderne, è necessario attendere il proprio turno, pigiati tra decine e decine di turisti. In quella giornata di luglio, poggiato alla balaustra, non c’era quasi nessuno, pochi rivolgevano lo sguardo al cupolone della basilica della Madonna della Salute. Dopo averla ammirata da lontano, sono entrata: era deserta, anche lei. Amo la storia di questa chiesa, lontana eppure oggi così attuale. Racconta dell’epoca in cui Venezia era flagellata dalla peste e di quando, a liberare la città, fu Maria in persona. Per ringraziarla, venne eretto in suo onore questo splendido luogo di culto. Sull’altare, una Peste antropomorfa, sconfitta dalla Vergine, fugge via per sempre.
Altro sestiere, altro ponte. Siamo a San Polo: sapevi che in passato il Ponte del Rialto era in legno? E che si apriva per far transitare le imbarcazioni che scivolavano sul Canal Grande? Già allora era pieno di botteghe (un po’ come Ponte Vecchio a Firenze) e il mercato del pesce sorgeva appena dietro, dove lo trovi ancora oggi. A stabilire le misure minime che i pesci dovevano avere per essere venduti era il Doge, come si legge sull’insegna di cui ti ho parlato qui.
Lascia San Polo e spingiti verso i sestieri ancor meno battuti. Entra in Santa Croce: in altri tempi, la coppietta che sta passando ora in gondola lungo la Fondamenta de le Tette, avrebbe visto seni al vento e udito richiami sguaiati.
Cannaregio, con il suo ghetto ebraico, è uno dei miei preferiti. I ghetti in realtà sono tre, tre isolette messe in comunicazione da altrettanti ponticelli: il Ghetto Novo, il Ghetto Vecio e il Ghetto Novissimo. Mi piace osservare le case, strette e alte: alcune arrivano fino a nove piani. Mi siedo a un caffè nel tavolino accanto a due signori coi cernecchi che spuntano sotto la tesa di un cappello nero e mi lascio trasportare da suggestioni shakespeariane quando passo dinanzi al Banco Rosso, antico banco dei pegni sopravvissuto al crollo della Repubblica. Vedere campi e campielli così vuoti rende semplice persino immaginarli pieni di oche: qualche secolo fa, centinaia e centinaia di esemplari erano lasciati liberi di razzolare in giro. Perché? Piume, grasso da utilizzare al posto dell’olio, carne. Dell’oca non si buttava via nulla.
Arriviamo ora alla ‘coda’ di Venezia: il sestiere Castello. Anche qui, trovi perle tutte per te. Calle Bragadin ad esempio, dove si trova – unico in città – un palazzo che, fungo bizzarro, sembra spuntato tra due canali. O Ponte Chiodo, uno degli unici due ponti privi di corrimano, che se ti siedi sul bordo puoi stare con le gambe a penzoloni sull’acqua. E ancora, Riva degli Schiavoni, dove le gondole a riposo dondolano lente, il campanile della Giudecca sullo sfondo.
Da Riva degli Schiavoni a San Marco è un attimo. Basta passare sul ponte Paglia, quello proprio di fronte al Ponte dei Sospiri. Il tramonto tinge tutto di rosa ma io aspetto quell’attimo appena prima del buio, quando nel cielo ci sono le ultime tracce di blu. E’ quello che mi piace di più.
I vaporetti che disegnano scie fulgide, il chiarore soffuso dei lampioni che lascia indovinare le sagome di cupole e palazzi. E quella luce tonda sotto i portici che, a San Marco, fa da super luna.
Come una maschera, la notte copre il volto più turistico di Venezia e le restituisce autenticità. Nel buio delle calli, nel silenzio dei canali, Venezia torna ad essere quel mondo un po’ misterioso, che l’immaginario collettivo ha riempito di ombre, inganni e segreti. Un mondo in cui non ci sarebbe nulla di strano se, girato l’angolo, ti trovassi faccia a faccia con individui in parrucca e belletto o bauta e tricorno.
Io e il romanticismo siamo agli antipodi, ma mi viene da dire che, forse, è proprio l’atmosfera delle sue notti ad aver reso Venezia il luogo romantico per eccellenza. E se per salvaguardare tutto ciò, bisogna mettere un tornello all’ingresso, bhe, allora ben venga.