Angkor Wat, tra serpenti e danzatrici celesti

Come visitare Angkor Wat
Il tempio di Angkor Wat
Straordinario per bellezza e armonia, è l’edificio religioso più grande al mondo

C’era un tempo in cui la Cambogia era un regno grande e potente: tra l’XI e il XV secolo, l’impero Khmer affermava un dominio incontrastato su ampie porzioni di Vietnam, Laos, Thailandia, Birmania e persino Malesia. La capitale del regno, Angkor, era uno dei più vasti insediamenti urbani del mondo allora conosciuto e, impreziosita da centinaia di templi, uno dei più belli.

Difficile per gli storici ricostruire con esattezza l’identità e il trascorso degli Khmer: non hanno lasciato alcuna testimonianza scritta e ciò che oggi sappiamo di questo popolo è stato dedotto da resoconti di terzi (commercianti, politici, pensatori in visita ad Angkor) e dai bassorilievi incisi sulle pareti dei templi.

Tuttavia, possiamo dire che gli Khmer erano un popolo intelligente, amante del bello, devoto a un sovrano che era al tempo stesso anche il loro Dio. Erano contadini, architetti, esperti di idraulica e di economia. E naturalmente erano anche soldati: per un paio di secoli, il loro fu l’esercito più grande d’Indocina. Eppure, sempre più pressato dai tumultuosi vicini di casa – Siam e Champa, ossia gli attuali Thailandia e Vietnam centrale – l’impero Khmer si smembrò poco alla volta per poi cadere definitivamente.

La città perduta di Angkor
Semi distrutta, Angkor, nata induista, venne riconvertita al credo buddista ma questo non bastò a salvarla: proprio come un’altra mitica città perduta – Machu Picchu – anch’essa cadde vittima dell’incuria e fu progressivamente inghiottita dalla foresta. Case e palazzi, costruiti in legno, marcirono in fretta, ma i solidi templi di pietra sopravvissero ai secoli. A riportarla alla luce sarà l’entusiasmo di un esploratore, il francese Henri Mouhot, che la (ri)scoprì a metà ‘800. Proprio i francesi furono i primi ad adoperarsi in intense opere di restauro, a cui si sono poi unite nazioni di tutto il globo.

Nel 1992 Angkor viene dichiarata patrimonio UNESCO e, ad oggi, è il sito archeologico più grande del mondo: ben 300 sono i templi che si trovano al suo interno, 48 dei quali accessibili ai visitatori. Induisti, buddisti o ibridi, alcuni si innalzano impavidi e vertiginosi verso il cielo, altri si allargano sulla terra. Alcuni sono stati liberati dalla vegetazione che li teneva prigionieri, altri ancora – e sono i più belli – hanno invece stretto un patto con la natura: le radici degli alberi sono diventate le loro nuove fondamenta e sarebbe impossibile immaginare uno senza l’altro.

C’è però una costruzione che più di tutte è entrata nel mito: le sue guglie di pietra, riprodotte anche sulla bandiera cambogiana, sono il simbolo dell’orgoglio nazionale. Desideravo visitare Angkor Wat da non so quanto tempo e, ora che l’ho fatto (ma pure prima, diciamolo!), c’è una cosa che non capisco: come fa a non essere una delle sette meraviglie del mondo moderno?

Come visitare Angkor Wat

Angkor Wat
E’ uno di quei luoghi che definisco “stargate”. Luoghi mitici, veri e propri portali che si aprono su mondi ormai imperscrutabili, capaci di sprigionare un’energia palpabile, quasi opprimente, che senti nella pancia prima ancora che nella testa. E’ una sensazione che ho provato entrando a Machu Picchu, avvicinandomi a Uluru, guardando negli occhi lo stupa di Boudhanath. E, come immaginavo, varcando la soglia di Angkor Wat.

Inizialmente consacrato a Vishnu, Dio della Trimurti e preservatore dell’universo, il tempio è stato costruito per volere del re Suryavarman II agli inizi del 1100: la fatica di oltre 300.000 uomini e 6 mila elefanti ha dato vita a quello che oggi è ritenuto il massimo esempio di architettura Khmer, nonchè l’edificio religioso più grande del mondo.

Al di là dell’arcobaleno
Di tutto il complesso, Angkor Wat è l’unico tempio ad essere rivolto ad occidente, dunque al tramonto; per associazione universale, alla morte, all’aldilà. Perché un orientamento così nefasto? Per due ragioni: se da un lato è risaputo che il regno di Vishnu si trovi a ovest (opposto a quello di Shiva, a est), dall’altro si è fatta strada l’idea che, molto probabilmente, re Suryavarman II voleva fare del tempio il suo mausoleo funebre (le sue spoglie però, perdute in battaglia, qui non arrivarono mai).

Estremamente interessante è la struttura dell’edificio: come molti altri luoghi di culto della città imperiale, Angkor Wat ricalca un mandala, o diagramma cosmico. In altre parole, è la rappresentazione terrena dell’universo induista. La torre centrale, la più alta, è una replica del Monte Meru, l’Olimpo hindu; le altre quattro torri rappresentano invece altrettante vette minori. Due barriere separano il complesso religioso dalla città di Angkor, come a dire il sacro dal profano: una cinta muraria (idealmente una catena montuosa) e un enorme fossato (l’oceano). Come unire questi due mondi? Tramite un ponte naturalmente, le cui fiancate sono decorate da grossi serpenti in pietra: sono i nāga, mitiche creature a sette teste associate ai colori dell’iride. E’ dunque attraversando l’arcobaleno, che si raggiunge la casa degli dei, il Paradiso.

Mentre le guglie di Angkor Wat si fanno sempre più vicine, trattengo a stento l’emozione: chiudo fuori i rumori molesti, gli schiamazzi delle scimmie che si tuffano in acqua, l’imbarazzante connazionale che sbraita “Ehi Go Pro, avvia video!”. Un mondo immenso sta per schiudersi a noi e mi spiace un po’ per lui che lo guarderà attraverso i pochi pollici del suo trabiccolo. Andiamo!

Scale e Serpenti
Sembra il nome del popolare gioco da tavolo anglosassone e, in effetti, Angkor Wat un rompicapo un po’ lo è. Ci sono scale ripide – ripidissime! – e ci sono i serpenti (principalmente in pietra, anche se la nostra guida, Saban, ci strizza l’occhio: “durante la stagione delle piogge anche quelli veri”).

Superate le mura ci troviamo in un cortile, quello esterno; sotto una prima torre ci accoglie la statua di Vishnù: supera i 3 metri e lo riconosciamo per via delle sue otto braccia. Proseguiamo verso il tempio centrale, quello vero e proprio, che si erge su di un terrazzamento rialzato sopra la città. Delimitato da quattro torri angolari, è strutturato su tre piani connessi tra loro da un labirinto di scale, gallerie e cortili interni che, con incredibili giochi di prospettiva, si elevano verso il centro, dove si erge la quinta torre. Con i suoi 65 metri, è la più alta e imponente di tutte. Via via che si sale, le scale si fanno sempre più dritte; ascendere al regno dei cieli, del resto, non è cosa facile. In particolare, la salita all’ultimo piano – ossia al santuario di Bakan – è molto ardua: la gradinata ha una pendenza di 75 gradi ed è praticamente impossibile montarvi senza guardare accuratamente dove si mettono i piedi. “E’ un espediente Khmer” – dice Saban. “Per raggiungere le divinità è necessario mostrarsi umili”. In altre parole, è un modo per costringere il comune mortale ad abbassare lo sguardo.

Come visitare Angkor Wat

Demoni e danzatrici
Grandioso e solenne, Angkor Wat stupisce anche per l’incredibile quantità di dettagli che lo caratterizza: intricati merletti di pietra ricoprono ogni parete e ogni pilastro e centinaia di occhi seguono il visitatore a ogni suo passo.

Partiamo dalle torri: le guglie sono state scolpite in modo da riprodurre boccioli di fior di loto, simbolo di purezza per Buddismo e Induismo. Un tempo ricoperte di foglie d’oro, secoli di razzie non hanno lasciato altro che spazio all’immaginazione: prova a figurartele mentre scintillano al sole!

Passiamo poi alle decorazioni impresse sulle mura: storia e mitologia Khmer prendono vita su di una lunga tela rocciosa, per un totale di circa 2km di bassorilievi. Vi sono scene di guerra, con re Suryavarman II attorniato da centinaia di fanti, ufficiali a cavallo e comandanti in groppa a un elefante. C’è il Ramayana, poema epico induista illustrato nelle sue scene più significative, come lo scontro tra il re delle scimmie e il demone a dieci teste e la celebre ‘zangolatura dell’oceano di latte’, che spiega come asura (demoni) e devata (divinità) si siano uniti per estrarre dalle acque il nettare dell’immortalità. Come? Tendendo, in un grottesco tiro alla fune, l’enorme serpente avvitato intorno al Monte Meru che, sollecitato da due forze opposte, andrà a smuovere il lattiginoso mare cosmico.

E che dire delle apsara, le ninfe celesti. Un po’ dee e un po’ ballerine, le apsara sono figure femminili che vivono sospese tra due mondi, nonchè le protagoniste delle danze di corte, oggi divenute danze nazionali. Motivo ricorrente in tutto il sito archeologico, nel solo Angkor Wat di apsara ce ne sono più di 1800: spuntano in ogni dove a gruppi di due, di quattro, oppure solitarie. Ti accolgono accanto alle porte, fanno capolino in fondo a un lungo corridoio, sorridono enigmatiche come gioconde. Sinuose ed estremamente sensuali, sembrano danzare nella pietra: io ne sono rimasta assolutamente stregata! A renderle straordinarie non è solo la loro bellezza, ma il fatto che ciascuna sia un pezzo unico grazie a un diverso ornamento tra i capelli, alla posizione delle mani, a un gioiello incastonato sulla fronte o sul polso. Persino alla loro chioma è stata attribuita grande cura: si contano in tutto ben 37 acconciature diverse!

Infine, su alcune pareti non potrai non notare alcune scalfitture anomale, circolari. No, non sono decorazioni ma, nel contesto di quel grande libro di storia che è Angkor Wat, vanno comunque ricordate: testimoni di un passato molto più recente, sono i fori delle pallottole esplose durante il terribile genocidio cambogiano.

Info utili:
# Il complesso archeologico di Angkor è uno di quei luoghi che andrebbero visti e rivisti. E non solo perché i templi sono tantissimi, ma anche perché, per apprezzarne appieno caratteristiche e sfumature, avrebbe ben poco senso inserirli tutti in un unico viaggio. Il rischio è infatti quello di farne ‘indigestione’, di confondere luoghi, immagini e sensazioni, portando così a casa un unico ricordo indistinto. Meglio poche tappe ma buone: scegli alcuni templi (e saranno comunque tanti!) e visitali per bene spalmandoli su un arco di due o tre giorni. Oltre che in auto, puoi pensare di spostarti da un sito all’altro affittando una bicicletta oppure con il caratteristico (e divertente) tuk-tuk.

# Naturalmente, Angkor Wat non può mancare nella tua lista: dedicaci almeno mezza giornata e, se ne hai occasione, fai in modo di essere sul posto anche al sorgere del sole, quando le torri del tempio si stagliano come nere silhouette contro un cielo che si riempie gradualmente di colori.

# Oltre alla visita ai templi, ricordati di fare una puntata anche al Museo Nazionale di Angkor, a Siem Reap: ti aspettano 8 gallerie disposte su oltre 20.000mq che, tramite manufatti e reperti religiosi, ti racconteranno meglio l’antica civiltà Khmer. Da non perdere la sala tutta dedicata ai Buddha, che conserva centinaia di effigi grandi e piccole!

# Il sito è aperto tutto l’anno ma, in alcuni mesi, afa e umidità possono rendere molto difficoltosa la visita. Sebbene tanti ritengano la stagione monsonica particolarmente scenografica per via dei colori brillanti assunti dalla foresta pluviale, la stagione secca (tra novembre e aprile) è comunque preferibile.

# Se un abbigliamento modesto in Cambogia è molto apprezzato, per visitare il comprensorio di Angkor è invece obbligatorio: si tratta di un luogo sacro e, per questo, spalle e gambe (almeno al ginocchio) vanno coperte. Niente canotte o shorts dunque, perfette invece magliette a mezza manica, gonne lunghe e pantaloni in cotone leggero. In quanto alle calzature, meglio optare per scarpe chiuse, onde evitare di scivolare sulle pietre e di essere morsicato da animaletti più o meno spiacevoli (che, fidati, ci sono).

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