Il sito archeologico di Angkor è uno di quei luoghi che andrebbero visti e rivisti. E non solo perché i templi sono numerosissimi, ma anche perché, per apprezzarne appieno caratteristiche e sfumature, avrebbe ben poco senso inserirli tutti in un unico viaggio. Il rischio è infatti quello di farne ‘indigestione’, di confondere luoghi, immagini e sensazioni, portando così a casa un unico ricordo indistinto. Meglio poche tappe ma buone: scegli quindi alcuni templi (e saranno comunque tanti!) e visitali per bene spalmandoli su un arco di due o tre giorni.
Oltre ad Angkor Wat, tempio meraviglioso di cui ho parlato qui, in questo post ti propongo altri dieci siti da scoprire nell’antica capitale Khmer. Per individuarli all’interno del complesso, a questo link troverai una cartina.
Pre Rup, la montagna infuocata
Al pari di Angkor Wat, Pre Rup può essere definito un ‘tempio-montagna’: la sua struttura vuole infatti essere la rappresentazione terrena dell’universo induista. Sviluppato in altezza, la torre centrale è la più alta e si identifica idealmente con il Monte Meru, l’Olimpo hindu; le altre torri costituiscono altrettante vette minori, mentre una cinta muraria e un fossato – immaginale come una catena montuosa e l’oceano – servivano a separare il complesso religioso dalla città, il sacro dal profano.
Se te la senti e non soffri di vertigini puoi salire gli scalini che ti porteranno alle terrazze più alte. Una volta lassù, siediti accanto ai grossi leoni in pietra custodi del luogo: osserva la giungla tutto intorno e, appena sotto di te, le rovine del tempio. Dedicato a Shiva, Pre Rup significa letteralmente ‘girare il cadavere’, il che fa pensare che proprio qui venissero svolte le cerimonie funebri, durante le quali era uso orientare il corpo di volta in volta verso i quattro punti cardinali. Il momento migliore per ammirare questo tempio è all’alba o al tramonto, quando il sole infiamma le sue pareti di mattoni e laterite.
Thommanon e Chau Say Tevoda, i templi prototipo
Visitati spesso in coppia, questi due tempietti sono molto simili tra loro e si trovano a distanza di pochi metri, uno dirimpetto all’altro; si dice siano stati il prototipo di Angkor Wat, la cui costruzione iniziò pochi anni dopo, nel 1130. Come quest’ultimo, sono caratterizzati da torri e giochi prospettici e, Chau Say Tevoda in modo particolare, da intagli e decorazioni estremamente raffinati.
Tra serpenti e fiori di loto, spiccano i bassorilievi che ritraggono le apsara, o ninfe celesti. Un po’ dee e un po’ ballerine, le apsara sono figure femminili sospese tra il paradiso e il mondo terreno, nonchè le protagoniste delle danze di corte, oggi divenute danze nazionali. Motivo ricorrente in tutta la città di Angkor, spuntano in ogni dove a gruppi di due, di quattro, oppure solitarie. Ti accolgono accanto alle porte, fanno capolino in fondo a un lungo corridoio, sorridono enigmatiche come gioconde. Mi hanno stregata completamente!
Ta Phrom, il tempio inghiottito dalla giungla
Quando ho chiesto alla nostra guida qual era il suo tempio preferito, Saban ha risposto Ta Phrom. Tomb Raider, naturalmente, non c’entra nulla. Prima che Angelina Jolie rendesse questo luogo così famoso, Saban veniva già qui, prendeva posto su di una roccia e, nel silenzio, entrava in armonia con la natura, pregava i suoi dei. Lo fa ancora, ma al mattino prestissimo, prima dell’arrivo dei turisti. La stagione che preferisce è quella delle piogge, quando il muschio è più verde e la giungla più piena, più brillante.
Bastano pochi minuti per capire il significato delle parole di Saban. Ta Phrom ti rapisce immediatamente, ti catapulta in un’altra dimensione, in un altro tempo, forse non troppo lontano da quello in cui il francese Henri Mouhot e la sua squadra di esploratori lo videro per la prima volta. A differenza di altri luoghi di culto, liberati durante il restauro dalla vegetazione che li teneva prigionieri, Ta Phrom continua a vivere in simbiosi con la giungla che lo avvolge. E’ un patto malato, per certi versi: le gigantesche radici di banyan sfondano pareti, stritolano le rocce, bloccano i portali. Strisciano sui tetti come lunghi serpenti, spaccano i pavimenti, soffocano le gentili ballerine apsara. Pietroni secolari ammucchiati come tessere del domino giacciono in terra coperti di muschio, mentre ficus strangolatori si avvinghiano intorno a quel che resta di una colonna, pronti a polverizzarla nei prossimi decenni. Eppure è impossibile non restare affascinati da questo scenario; impossibile immaginare il tempio senza la natura, la natura senza il tempio. In questo legame, che sa di amore straziante e tormentato, risiede l’infinita bellezza di Ta Phrom.
Neak Pean, l’isola tempio
Unico nel suo genere nel complesso di Angkor, sorge su di un isolotto creato al centro di un bacino artificiale, connesso a sua volta con altri 4 bacini minori. Ciascuno di essi rappresenta un punto cardinale, un fiume e un elemento ed è protetto da un doccione in pietra: un elefante, un leone, un cavallo e l’uomo. Sono inoltre presenti due Nāga, semi-divinità induiste a forma di serpente, le cui code si attorcigliano intorno al tempio eretto sull’isolotto: Neak Pean significa infatti ‘serpente intrecciato’.
Sebbene questa particolare struttura sia stata pensata probabilmente per riprodurre l’Anavatapta, leggendario lago himalayano dalle proprietà curative, sono molti i templi – a partire da Angkor Wat – ad essere provvisti di vasche e fossati. Oltre a quella religiosa, questi bacini rivestivano anche una funzione pratica, che molto racconta delle competenze idrauliche degli Khmer. In un paese monsonico come la Cambogia, raccogliere l’acqua piovana era infatti fondamentale per garantire l’irrigazione dei campi in ogni periodo dell’anno: il riso, in primis, era alla base della sopravvivenza della nazione.
Neak Pean non è forse tra i templi più suggestivi, ma ho trovato stupendo attraversare la lunga passerella costruita sul lago (una volta raggiungibile solo in barca): i giochi delle nuvole riflesse sull’acqua, le larghe foglie delle ninfee, il rosa dei fiori di loto… pura poesia.
Angkor Thom, la Città Grande
Angkor Thom, la città grande, è stata l’ultima capitale dell’impero Khmer. Costruita nel 1177 a seguito della disastrosa invasione Cham, popolazione del vicino Vietnam, Angkor Thom racchiudeva nei suoi 9 km² non solo il palazzo reale, ma anche le dimore di ufficiali di corte, burocrati e sacerdoti, oltre a splendidi giardini e diversi templi. A proteggerla, un ampio fossato e una cinta muraria: noi entreremo dalla porta sud, la meglio restaurata e più frequentata.
E’ senza dubbio uno dei ricordi più vividi che ho della Cambogia: immagina un ponte, teso sul fossato di cui ti parlavo poco fa. Su lato sinistro siedono 54 (!) devata di pietra, divinità buone dai volti armonici e levigati, i lineamenti perfetti. Alla tua destra, ci sono altrettanti asura, demoni sgraziati, deformati da smorfie e ghigni: gli occhi fuori dalle orbite, gli angoli della bocca piegati all’ingiù in espressioni di rabbia. I due gruppi sono alle prese con un grottesco tiro alla fune se non che, quella che sembra una corda in realtà è… un serpente. Si tratta della rappresentazione di un celebre episodio del Ramayana, poema epico induista, che spiega come le forze del bene e del male si siano unite per stimolare l’enorme Nāga avvitato intorno al monte Meru. Tirato alle estremità, il serpente avrebbe agitato l’oceano e prodotto così l’Amrita, l’elisir dell’immortalità.
Procedendo tra angeli e demoni, raggiungerai la gopura, la monumentale porta della città. Sovrastata da una torre alta 23 metri, incute un certo timore: su ciascun lato sono infatti scolpiti dei visi, ciascuno con una diversa espressione. Li ritroveremo tra poco (moltiplicati) nel tempio di Bayon ma, per ora, sappi che nessuno ha mai avuto la certezza di ciò che rappresentano: i volti del re, del bodhisattva della Compassione, o ancora, dei guardiani dell’impero, con lo sguardo rivolto a ciascun punto cardinale.
I duecento volti di Bayon
Secondo solo ad Angkor Wat, è il tempio più iconico e riconoscibile della Cambogia. Costruito esattamente al centro della capitale nel periodo di massimo splendore, a demandarne la realizzazione – siamo ormai agli inizi del 1200 – fu Jayavarman VII, il sovrano forse più amato e temuto della dinastia khmer. Fervente buddista, proclamò questo culto nuova religione di stato a scapito dell’induismo.
Ricordi gli enormi volti della gopura varcata poco fa? Ecco, qui l’effetto si ripete ma è portato all’estremo: a Bayon svettano infatti 54 torri, ciascuna con un viso scolpito su ogni lato. Un rapido calcolo e, sì, sei sotto l’occhio vigile di ben 216 giganti di pietra. Tutti diversi l’uno dall’altro, sfoderano 216 sfumature di sorrisi, riconducibili però a quell’unica espressione, enigmatica e imperturbabile, tipica del Buddha. Che, c’è da scommetterci, assomigliava in maniera impressionante a Jayavarman VII.
Nel tempio, il loro sguardo ti segue ovunque: mentre cerchi di comprendere i bassorilievi scolpiti sulle pareti, mentre calpesti l’erba pregando di non risvegliare un’orda di formiche rosse, mentre mandi giù l’ennesima sorsata d’acqua per combattere l’afa. Imperscrutabili, secondo alcuni serafici secondo altri vagamente inquietanti (io propendo per la seconda), i volti di Bayon ti fanno sentire piccola, proprio come una di quelle formiche che cerchi di evitare. Forse, a quegli occhi di pietra che tanto hanno visto, noi appariamo esattamente così: minuscoli e inspiegabilmente affannati.
Baphuon, la piramide ibrida
Situato sempre all’interno di Angkor Thom, Baphuon è un ottimo esempio di sincretismo religioso: la sua forma a piramide rimanda ancora un volta al Monte Meru e dunque all’induismo, ma il gigantesco Buddha sul lato ovest dell’edificio testimonia il passaggio a un altro credo. Anche se salire le – sempre più ripide! – gradinate che portano alla sommità del tempio è una bella sfida, io ho preferito ricercare il suddetto Buddha: nonostante la sua mole, individuarlo non è così semplice! Parzialmente crollato, questa mastodontica divinità di circa 70 metri per 9 di altezza, si mimetizza come un camaleonte nel muro che lo ospita e costituisce. Una volta identificato, risulta chiara la sagoma del suo testone, che appare come un rigonfiamento nella parete; più difficile è tracciare il resto del corpo, disteso sul fianco.
Baphuon si trova a pochissima distanza dal luogo in cui sorgeva l’antico palazzo reale. Costruito in materiali deperibili – la pietra, simbolo di immortalità, era riservata ai soli templi – oggi di esso non rimane nulla, se non due terrazze che ne delimitavano parzialmente il perimetro. Entrambe visitabili, si tratta della Terrazza degli Elefanti, così chiamata per le sculture che la caratterizzano, e la Terrazza del Re Lebbroso, che deve il suo appellativo al ritrovamento di una statua di Yama – divinità induista della morte – tanto ricoperta di muschi e licheni da ricordare un malato di lebbra.
Banteay Srei, la città delle donne
In lingua khmer significa proprio questo: città delle donne. E non perché fosse un luogo frequentato unicamente dal sesso femminile ma perché è di una grazia, di un’eleganza tale che solo una donna poteva averlo concepito. Tutto in arenaria rosa, Banteay Srei è un tempio induista caratterizzato da bassorilievi che, più che scolpiti, sembrano ricamati. Merletti di pietra sono stati adagiati su ogni parete, frontone e colonna e raccontano, con un’impressionante quantità di dettagli, episodi legati alla mitologia o alla tradizione popolare.
Restaurato splendidamente (molto meglio di altri), il tempio di per sé non è particolarmente grande, ma mi sono trovata a volerci trascorrere molto tempo per ‘leggerlo’ meglio: lungo il tuo percorso vedrai, tra le altre cose, scimmie guardiane e antropomorfe, divinità danzanti o sedute nella posizione del loto, proboscidi di elefanti che si intrecciano, delicate apsara e persino il terribile Kala Bhairava, feroce manifestazione di Shiva che, con i suoi denti di tigre, avevo già avuto modo di ‘incontrare’ a Kathmandu.
Preah Khan, il tempio labirinto
Se ti è piaciuto Ta Phrom, allora amerai anche Preah Khan. Costruito da Jayavarman VII, imperatore buddista, non presenta più la struttura a montagna, bensì un’estensione tutta terrena. Grande quanto una cittadella, Preah Khan presenta un santuario al centro e, tutt’intorno, un fitto labirinto di gallerie, cortili e templi minori intitolati alle divinità più disparate.
All’entrata, proprio come ad Angkor Thom, troviamo due file di personaggi in pietra intenti a tirare un Nāga, quasi tutti, ahimè, decapitati: le teste di devata e asura, razziate o andate distrutte, in questo caso non sono mai state restaurate. Mente attraversiamo il corridoio che conduce all’ingresso, accade una cosa bizzarra: sentiamo un rumore fortissimo, simile all’antifurto di una macchina, per intenderci. Solo che, ovviamente, nei paraggi non c’è nessuna auto. “E’ un insetto”, spiega Saban. Faccio tanto d’occhi, eppure è così: immagina uno stuolo di cicale, mettigli sul dorso una sirena lampeggiante e… sentirai quello che ho sentito io. Da non crederci.
Storditi, entriamo in Preah Khan. L’interno… bhè, è magico. Il patto tempio-natura si rinnova: le radici degli alberi hanno preso il posto di fondamenta e architravi e l’impressione è che, a smuoverle, tutto ci rovini sulla testa. E’ quasi il tramonto e, giocando con ombre sempre più lunghe, il sole crea strani effetti. Una ballerina mutilata lancia uno sguardo languido a un guerriero di pietra; lo sguardo feroce e la spada in mano, questi sembra pronto a mozzare il primo tentacolo vegetale che si azzardi a sfiorare la sua bella. Tunnel lunghissimi si snodano una porta dopo l’altra, per poi aprirsi sul nero della giungla; coni d’ombra rivelano occhi che ti guardano, mani in preghiera; un Buddha senza testa siede in uno spazio angusto, inondato da un unico raggio di luce. Qualcuno, di recente, ha posato nel suo grembo un fiore bianco, lo stelo lunghissimo.
Oltre a Ta Phrom, il tempio che più mi ha impressionata è proprio quest’ultimo, Preah Kahn.
A te quale ispira?